Gabriel García Márquez.
    DODICI RACCONTI RAMINGHI.


  




    INDICE.

    Premessa.
    Perché dodici, perché racconti e perché raminghi: pagina 3.

    Buon viaggio, signor presidente: pagina 11.
    La santa: pagina 49.
    L'aereo della bella addormentata: pagina 70.
    Mi offro per sognare: pagina 79.
    «Sono venuta solo per telefonare»: pagina 89.
    Spaventi di agosto: pagina 113.
    Maria dos Prazeres: pagina 118.
    Diciassette inglesi avvelenati: pagina 139.
    Tramontana: pagina 158.
    L'estate felice della signora Forbes: pagina 166.
    La luce è come l'acqua: pagina 185.
    La traccia del tuo sangue sulla neve: pagina 191.





    Premessa.

    Perché dodici, perché racconti e perché raminghi.
    I dodici racconti di questo libro sono stati scritti nel  corso  degli
    ultimi  diciotto  anni.  Prima  della loro forma attuale,  cinque sono
    stati articoli di giornale e sceneggiature cinematografiche,  e uno  è
    stato  un  serial  televisivo.  Un altro lo raccontai quindici anni fa
    durante un'intervista registrata, e l'amico cui l'avevo raccontato poi
    lo trascrisse e lo pubblicò,  e adesso l'ho  riscritto  a  partire  da
    quella versione. E' stata una strana esperienza creativa che merita di
    essere  spiegata,  anche  solo perché i bambini che da grandi vogliono
    diventare  scrittori  sappiano  fin  d'ora  quanto  è  insaziabile   e
    corrosivo il vizio di scrivere.
    La prima idea mi venne all'inizio degli anni Settanta,  a proposito di
    un  sogno  chiarificatore  fatto  dopo  cinque  anni  che   vivevo   a
    Barcellona.  Avevo  sognato  di  assistere  al mio funerale,  a piedi,
    camminando in mezzo a un gruppo di amici vestiti a lutto  stretto,  ma
    in vena di bagordi. Sembravamo tutti felici di stare insieme. E io più
    di  ogni  altro,  per  via di quella grata occasione che mi offriva la
    morte di ritrovarmi con  i  miei  amici  dell'America  latina,  i  più
    vecchi,  i più amati,  quelli che non vedevo da più tempo.  Al termine
    della cerimonia, mentre cominciavano ad andarsene, io avevo tentato di
    seguirli,  ma uno di loro mi  aveva  fatto  notare  con  una  severità
    risoluta  che  per  me  la festa era finita.  «Sei l'unico che non può
    andarsene» mi aveva detto.  Solo allora avevo capito che morire è  non
    ritrovarsi mai più con gli amici.
    Non  so perché,  quel sogno esemplare lo interpretai come una presa di
    coscienza della mia identità,  e pensai che era un buon punto di avvio
    per  scrivere  sulle  cose  strane che succedono ai latinoamericani in
    Europa.  Fu un'idea incoraggiante,  perché  poco  prima  avevo  finito
    "L'autunno  del  patriarca",  che  è  stato  il mio lavoro più arduo e
    arrischiato, e non sapevo come proseguire.
    Per circa due anni presi appunti sugli argomenti che mi passavano  per
    la  testa senza ancora decidere cosa farne.  Siccome non avevo in casa
    un blocco per appunti la sera in cui  decisi  di  cominciare,  i  miei
    figli mi prestarono un quaderno da scuola. Erano loro che lo portavano
    negli  zainetti  di libri durante i nostri viaggi frequenti per timore
    che si perdesse.  Arrivai ad avere sessantaquattro argomenti  annotati
    con così tanti dettagli che mi mancava solo di scriverli.
    Fu a Città del Messico, al mio ritorno da Barcellona, nel 1974, che mi
    si  chiarì che questo libro non doveva essere un romanzo,  come mi era
    sembrato all'inizio,  bensì una raccolta di racconti brevi,  basati su
    fatti  giornalistici  ma  redenti dalla loro condizione mortale grazie
    alle astuzie della poesia.  Fino ad allora avevo scritto tre libri  di
    racconti.  Tuttavia,  nessuno  dei tre era concepito e risolto come un
    tutto,  essendo ogni racconto un pezzo autonomo e occasionale.  Sicché
    scrivere  quei sessantaquattro poteva essere un'avventura affascinante
    se fossi riuscito a buttarli  giù  tutti  di  getto,  e  con  un'unità
    interna  di tono e di stile che li rendesse inseparabili nella memoria
    del lettore.
    I primi due - "La traccia del  tuo  sangue  sulla  neve"  e  "L'estate
    felice  della  signora  Forbes"  -  li  scrissi nel 1976,  e subito li
    pubblicai in supplementi letterari di vari paesi. Non mi presi neppure
    un giorno di riposo,  ma a metà del terzo racconto,  che  era  proprio
    quello  del mio funerale,  mi accorsi che stavo stancandomi più che se
    fosse stato un romanzo. Lo stesso mi accadde col quarto.  A tal punto,
    che non ce la feci a finirli.  Adesso so perché: lo sforzo di scrivere
    un racconto breve è intenso quanto cominciare un romanzo.  Perché  nel
    primo paragrafo di un romanzo bisogna definire tutto: struttura, tono,
    stile,  ritmo,  lunghezza,  e talvolta persino il carattere di qualche
    personaggio.  Il resto è il piacere  di  scrivere,  il  più  intimo  e
    solitario che si possa immaginare, e se uno non rimane a correggere il
    libro  per  il  resto della vita è perché lo stesso rigore di ferro di
    cui c'è bisogno per cominciarlo si impone per  finirlo.  Il  racconto,
    invece,  non  ha  inizio  né fine: viene o non viene.  E se non viene,
    l'esperienza propria  e  altrui  insegnano  che  quasi  sempre  è  più
    salutare ricominciarlo per un'altra via,  o buttarlo nella spazzatura.
    Qualcuno che non ricordo l'ha detto bene con una frase consolante: «Un
    buon scrittore lo si apprezza meglio da quanto straccia che da  quanto
    pubblica».  E'  vero che non ho stracciato i brogliacci e gli appunti,
    ma ho fatto di peggio: li ho spinti nell'oblio.
    Ricordo di avere tenuto il quaderno sulla mia scrivania di  Città  del
    Messico,  naufrago in una burrasca di fogli,  fino al 1978. Un giorno,
    cercando qualcos'altro,  mi accorsi che  da  tempo  l'avevo  perso  di
    vista.  Non  me ne importò.  Ma quando mi convinsi che davvero non era
    sul tavolo ebbi una crisi di panico.  Non rimase in casa un angolo che
    non fosse stato setacciato a fondo.  Spostammo i mobili,  smontammo la
    biblioteca per essere sicuri che non fosse caduto dietro  i  libri,  e
    sottoponemmo  domestici  e amici a inquisizioni imperdonabili.  Non ce
    n'era traccia.  L'unica spiegazione possibile - o plausibile?  - è che
    in  qualcuno dei tanti massacri di carte che faccio spesso il quaderno
    fosse finito nella spazzatura.
    La mia reazione mi stupì: gli  argomenti  che  avevo  dimenticato  per
    quasi  quattro  anni  si  erano  trasformati in una questione d'onore.
    Cercando di recuperarli a qualsiasi prezzo, in una fatica ardua quanto
    scriverli,  riuscii a ricostruire  gli  appunti  di  trenta  di  loro.
    Siccome  lo  stesso  sforzo  di  ricordarli  mi  era servito da purga,
    eliminai spietatamente quelli che  mi  sembrarono  insalvabili,  e  ne
    rimasero   diciotto.   Questa  volta  mi  animava  la  risoluzione  di
    continuare a scriverli senza interruzioni, ma ben presto mi resi conto
    che non mi entusiasmavano più. Comunque,  al contrario di quanto avevo
    sempre consigliato ai nuovi scrittori,  non li buttai nella spazzatura
    ma di nuovo li archiviai. Non si può mai sapere.
    Quando cominciai "Cronaca di  una  morte  annunciata",  nel  1979,  mi
    accorsi  che  nelle  pause  fra i due libri avevo perso l'abitudine di
    scrivere e mi era sempre più difficile ricominciare.  Per questo,  fra
    l'ottobre  del  1980  e  il  marzo del 1984,  mi imposi di scrivere un
    articolo ogni settimana su giornali di diversi paesi,  come disciplina
    per  mantenermi il polso caldo.  Allora mi venne da pensare che il mio
    conflitto con gli appunti del  quaderno  era  sempre  un  problema  di
    generi  letterari,  e  che  in  realtà non dovevano essere racconti ma
    articoli di giornale.  Solo che dopo avere pubblicato cinque  articoli
    presi  dal  quaderno,  di nuovo cambiai parere: andavano meglio per il
    cinema.  Fu così  che  ne  vennero  fuori  cinque  film  e  un  serial
    televisivo.
    Quel  che non avevo mai previsto fu che il lavoro per i giornali e per
    il cinema mi avrebbe fatto cambiare certe idee sui racconti,  al punto
    che  scrivendoli  adesso  nella  loro forma conclusiva ho dovuto stare
    attento a separare con le pinze le mie idee  da  quelle  inserite  dai
    registi  durante  la  scrittura  delle  sceneggiature.   Inoltre,   la
    collaborazione simultanea con cinque creatori diversi mi ha  suggerito
    un  altro  metodo  per  scrivere  i racconti: ne cominciavo uno quando
    avevo tempo libero,  lo mettevo da parte quando mi sentivo  stanco,  o
    quando spuntava un progetto imprevisto,  e poi ne cominciavo un altro.
    In poco più di un anno,  sei dei diciotto argomenti  sono  finiti  nel
    cestino  della  cartaccia,  e fra questi quello del mio funerale,  non
    essendo mai riuscito a far sì che fosse una gazzarra come  quella  del
    sogno. I racconti rimanenti, invece, sono parsi prendere fiato per una
    lunga vita.
    Sono  i dodici di questo libro.  Nel settembre scorso erano pronti per
    essere stampati dopo altri due anni di lavoro  intermittente.  E  così
    sarebbe  finito  il  loro incessante andar raminghi fra il tavolo e il
    cestino della cartaccia,  solo che all'ultimo momento mi ha  preso  un
    dubbio finale.  Visto che le diverse città d'Europa in cui si svolgono
    i racconti le avevo descritte a memoria e nella  distanza,  ho  voluto
    controllare  la  fedeltà  dei miei ricordi quasi vent'anni dopo,  e ho
    intrapreso un rapido viaggio di ricognizione a Barcellona,  a Ginevra,
    a Roma e a Parigi.
    Nessuna  di  queste  città  aveva  più  nulla  a che vedere con i miei
    ricordi.  Tutte,  come tutta l'Europa attuale,  erano rarefatte da  un
    capovolgimento  stupefacente:  i  ricordi reali mi sembravano fantasmi
    della memoria,  mentre i ricordi  falsi  erano  così  convincenti  che
    avevano  soppiantato la realtà.  Sicché mi era impossibile distinguere
    la linea divisoria fra la  delusione  e  la  nostalgia.  E'  stata  la
    soluzione  decisiva.  Finalmente avevo trovato quel che più mi mancava
    per terminare il libro,  e che solo il trascorrere degli  anni  poteva
    fornirmi: una prospettiva nel tempo.
    Al mio ritorno da quel viaggio fortunoso ho riscritto ancora una volta
    tutti i racconti fin dall'inizio in otto mesi febbrili durante i quali
    non  ho  avuto  bisogno  di  domandarmi  dove  finiva  la  vita e dove
    cominciava l'immaginazione, perché mi sorreggeva il sospetto che forse
    non era vero nulla di quanto avevo vissuto vent'anni prima in  Europa.
    La  scrittura  è  allora  divenuta così fluida che a tratti mi sentivo
    scrivere per il puro piacere di narrare,  che è  forse  la  condizione
    umana che più somiglia alla levitazione.  Inoltre, lavorando a tutti i
    racconti al contempo e saltando dall'uno all'altro in  piena  libertà,
    ho  ottenuto  una  visione  panoramica che mi ha evitato la stanchezza
    degli inizi successivi,  e mi ha aiutato a eliminare ridondanze oziose
    e  contraddizioni  mortali.  Credo  di avere così ottenuto il libro di
    racconti più vicino a quello che ho sempre voluto scrivere.
    Ed eccolo qui,  pronto per essere portato sul tavolo dopo tanti giri a
    destra   e   a   manca   lottando  per  sopravvivere  alle  perversità
    dell'incertezza.  Tutti i racconti,  tranne i primi  due,  sono  stati
    ultimati  al  contempo,  e ognuno reca la data in cui l'ho cominciato.
    L'ordine in cui compaiono in questa edizione è quello che avevano  nel
    quaderno di appunti.
    Ho  sempre creduto che ogni versione di un racconto sia migliore della
    precedente.  Come sapere allora quale  deve  essere  l'ultima?  E'  un
    segreto del mestiere che non obbedisce alle leggi dell'intelligenza ma
    alla  magia degli istinti,  così come la cuoca sa quando la minestra è
    pronta. Comunque,  per ogni evenienza,  non li rileggerò,  come non ho
    mai  riletto  nessuno  dei  miei libri per timore di pentirmi.  Chi li
    leggerà saprà cosa farne.  Per fortuna,  nel  caso  di  questi  dodici
    racconti raminghi, finire nel cestino della cartaccia deve essere come
    il sollievo di tornare a casa.

    Cartagena de Indias, aprile 1992.









    Buon viaggio, signor presidente.

    Era  seduto  sulla  panchina di legno sotto le foglie gialle del parco
    solitario,  intento a contemplare i cigni polverosi  con  entrambe  le
    mani  appoggiate  sul  pomo  d'argento  del bastone,  e a pensare alla
    morte.  Quand'era arrivato a Ginevra per la prima volta  il  lago  era
    sereno  e  diafano,  e c'erano gabbiani docili che si avvicinavano per
    mangiare in mano, e donne a nolo che sembravano fantasmi delle sei del
    pomeriggio,  con falpalà di organza e parasoli di seta.  Ora,  l'unica
    donna possibile, fin dove gli arrivava la vista, era una venditrice di
    fiori sul molo deserto.  Stentava a credere che il tempo avesse potuto
    far simili scempi non solo nella sua vita ma anche nel mondo.
    Era uno dei tanti sconosciuti nella città degli sconosciuti  illustri.
    Indossava  il vestito blu a righe bianche,  il panciotto di broccato e
    il cappello rigido dei magistrati in pensione.  Aveva un paio di baffi
    alteri  da  moschettiere,  i  capelli  azzurrini e abbondanti con onde
    romantiche,  le mani da arpista con  la  fede  da  vedovo  all'anulare
    sinistro,  e gli occhi allegri. L'unica cosa che tradiva le condizioni
    della sua salute era la  stanchezza  della  pelle.  E  anche  così,  a
    settantatré anni, era sempre di un'eleganza principesca. Quel mattino,
    tuttavia,  si  sentiva esente da ogni vanità.  Gli anni della gloria e
    del potere gli  erano  rimasti  definitivamente  alle  spalle,  e  ora
    c'erano solo quelli della morte.
    Era  tornato  a  Ginevra  dopo  due  guerre mondiali,  in cerca di una
    risposta decisiva a un dolore che i medici della Martinica  non  erano
    riusciti a identificare. Aveva previsto non più di quindici giorni, ma
    erano  già trascorse sei settimane di analisi spossanti e di risultati
    incerti,  e non se ne vedeva ancora la fine.  Cercavano il dolore  nel
    fegato,  nei  reni,  nel  pancreas,  nella  prostata,  lì dove meno si
    trovava.  Fino a quel giovedì malaugurato,  in cui il medico meno noto
    fra  i molti che l'avevano visto non gli aveva fissato un appuntamento
    alle nove del mattino nel padiglione di neurologia.
    Lo studio sembrava una cella monacale,  e  il  medico  era  piccolo  e
    lugubre, e aveva la mano destra ingessata per una frattura al pollice.
    Quando  ebbe  spento  la  luce,  apparve  sullo schermo la radiografia
    illuminata di una spina dorsale che lui non riconobbe come sua  finché
    il medico non indicò con una bacchetta, sotto la vita, l'unione di due
    vertebre.
    «Il suo dolore sta qui» gli disse.
    Per  lui  non  era  così  facile.  Il  suo  dolore  era  improbabile e
    sfuggente,  e talvolta sembrava star fra le costole destre e  talaltra
    nel  basso  ventre,  e  spesso lo sorprendeva con una fitta istantanea
    all'inguine.  Il medico lo ascoltò interrompendosi e con la  bacchetta
    immobile  sullo  schermo.  «Ecco  perché ci ha depistati così a lungo»
    disse.  «Ma ora sappiamo che sta qui.»  Poi  si  portò  l'indice  alla
    tempia, e precisò:
    «Sebbene  a  rigor di logica,  signor presidente,  ogni dolore risieda
    qui.»
    Il suo stile clinico era  così  drammatico,  che  la  sentenza  finale
    sembrò  benevola:  il  presidente  doveva  sottoporsi  a un'operazione
    pericolosa e inevitabile.  Questi gli domandò qual era il  margine  di
    rischio, e il vecchio dottore lo avvolse in una luce di esitanza.
    «Non potremmo dirlo con sicurezza» gli disse.
    Fino a poco tempo prima,  precisò,  i rischi di incidenti fatali erano
    grandi,  e più ancora di molteplici paralisi di vario  grado.  Ma  col
    progresso della medicina dopo le due guerre quei timori erano cose del
    passato.
    «Parta  tranquillo»  concluse.  «Sistemi  per  bene le sue cose,  e ci
    avverta.  Però non dimentichi  che  sarà  meglio  occuparsene  al  più
    presto.»
    Non era una buona mattina per smaltire quella brutta notizia,  e tanto
    meno con quel tempaccio.  Era uscito molto presto dall'albergo,  senza
    soprabito,  perché aveva visto un sole raggiante dalla finestra,  e si
    era avviato col suo passo lento dal Chemin du  Beau  Soleil,  dove  si
    trovava  l'ospedale,  sino  al rifugio per innamorati furtivi del Parc
    Anglais. Era lì da oltre un'ora,  sempre intento a pensare alla morte,
    quando iniziò l'autunno. Il lago si increspò come un oceano infuriato,
    e  un  vento  di  disordine spaventò i gabbiani e spazzò via le ultime
    foglie.  Il presidente si alzò e,  invece di comprarla dalla  fioraia,
    colse  una  margherita  dai vasi pubblici e se la infilò all'occhiello
    del risvolto. La fioraia lo sorprese.
    «Quei fiori non sono del buon Dio, signore» gli disse, piccata.  «Sono
    del municipio.»
    Lui non le diede retta. Si allontanò con lunghi passi leggeri, tenendo
    il  bastone per il mezzo della canna,  e a tratti facendolo girare con
    una scioltezza un po' libertina.  Sul ponte  del  Mont  Blanc  stavano
    togliendo  di  gran  fretta le bandiere della Confederazione impazzite
    sotto il vento,  e lo zampillo sottile coronato  di  spuma  si  spense
    prima  del tempo.  Il presidente non riconobbe il suo solito caffè sul
    molo,  perché avevano tolto il tendaggio  verde  della  veranda  e  le
    terrazze  fiorite  dell'estate si erano ormai chiuse.  Nella sala,  le
    lampade erano accese in pieno giorno,  e il quartetto d'archi  suonava
    un  Mozart  premonitore.  Il  presidente prese dal banco un quotidiano
    della pila riservata ai clienti,  appese  il  cappello  e  il  bastone
    all'attaccapanni,  si  mise  gli  occhiali  con la montatura d'oro per
    leggere al tavolino più discosto, e solo allora fu consapevole che era
    arrivato l'autunno.  Cominciò  a  leggere  dalla  pagina  di  politica
    estera,  dove assai di rado trovava qualche notizia delle Americhe,  e
    continuò a leggere dalla fine verso l'inizio finché la  cameriera  non
    gli ebbe portato la sua bottiglia quotidiana di acqua di Evian. Da più
    di  trent'anni aveva rinunciato all'abitudine del caffè per ordine dei
    suoi medici. Ma aveva detto: «Se un giorno avessi la certezza di dover
    morire, riprenderei a berlo». Forse il momento era arrivato.
    «Mi porti pure un caffè» ordinò in un  francese  perfetto.  E  precisò
    senza accorgersi del doppio senso: «All'italiana,  di quelli che fanno
    resuscitare i morti».
    Lo bevve senza zucchero,  a sorsi lenti,  e poi rovesciò la tazza  sul
    piattino  affinché  i  fondi del caffè,  dopo tanti anni,  avessero il
    tempo di tracciare il suo destino. Il sapore recuperato lo redense per
    un istante dai suoi brutti pensieri. Un momento dopo, come parte dello
    stesso sortilegio,  sentì che qualcuno lo  guardava.  Allora  girò  la
    pagina  con  un  gesto casuale,  guardò da sopra gli occhiali,  e vide
    l'uomo pallido e non rasato,  con un berretto sportivo e una giacca di
    pelle scamosciata,  che scostò subito lo sguardo per non incontrare il
    suo.
    Il viso gli era familiare.  Si erano incrociati più  volte  nell'atrio
    dell'ospedale,  l'aveva  rivisto  un  giorno  su  una  vespa  lungo la
    Promenade du Lac mentre lui contemplava i cigni,  ma non  si  era  mai
    sentito riconosciuto.  Non scartò,  tuttavia, che fosse un'altra delle
    tante fantasie di persecuzione dell'esilio.
    Finì il quotidiano senza fretta,  fluttuando fra i cieli  sontuosi  di
    Brahms,  finché  il  dolore  non  fu  più  forte dell'analgesico della
    musica.  Allora guardò l'orologio  d'oro  che  portava  appeso  a  una
    catenella  nel  taschino  del  panciotto,  e  prese  le  due compresse
    calmanti di mezzogiorno con l'ultimo sorso di acqua di Evian. Prima di
    togliersi gli occhiali decifrò il suo destino nei fondi del caffè,  ed
    ebbe  un brivido gelido: eccola lì l'incertezza.  Infine pagò il conto
    con  una  mancia   stitica,   prese   il   bastone   e   il   cappello
    dall'attaccapanni,  e  uscì  in  strada  senza  guardare l'uomo che lo
    guardava.  Si allontanò con la sua andatura  festosa,  costeggiando  i
    vasi di fiori stracciati dal vento,  e si credette libero dalla malia.
    Ma d'improvviso sentì i passi dietro i suoi,  si fermò  mentre  girava
    all'angolo,  e  si  volse.  L'uomo  che lo seguiva dovette fermarsi di
    botto per non scontrarsi con lui,  e lo guardo stupito,  a meno di due
    palmi dai suoi occhi.
    «Signor presidente» mormorò.
    «Dica  a  quelli  che  la  pagano  di  non  farsi  illusioni» disse il
    presidente, senza perdere il sorriso né il fascino della voce. «La mia
    salute è ottima.»
    «Nessuno lo sa meglio di me» disse l'uomo,  schiacciato dal peso della
    dignità che gli cadde addosso. «Lavoro all'ospedale.»
    La dizione e la cadenza,  e anche la sua timidezza, erano quelle di un
    caraibico genuino.
    «Non mi dirà che è medico» gli disse il presidente.
    «Ma si figuri, signore» disse l'uomo. «Sono conduttore di ambulanza.»
    «Mi dispiace» disse il presidente,  convinto del suo  errore.  «E'  un
    lavoro duro.»
    «Non quanto il suo, signore.»
    Lui  lo  guardò senza riserve,  si appoggiò al bastone con entrambe le
    mani, e gli domandò con un interesse reale:
    «Di dov'è lei?»
    «Dei Caraibi.»
    «Di questo me n'ero accorto» disse il presidente. «Ma di quale paese?»
    «Proprio del suo, signore» disse l'uomo, e gli porse la mano.  «Il mio
    nome  è  Homero  Rey.»  Il  presidente  lo interruppe sorpreso,  senza
    lasciargli la mano.
    «Cazzo» gli disse. «Che bel nome!»
    Homero si rilassò.
    «E ce n'è ancora» disse: «Homero Rey de la Casa».
    Una coltellata invernale li colse indifesi in mezzo  alla  strada.  Il
    presidente  rabbrividì  fin  nelle ossa e comprese che senza soprabito
    non avrebbe potuto fare i due isolati  che  gli  mancavano  fino  alla
    trattoria per poveri dove in genere pranzava.
    «Ha già pranzato?» domandò a Homero.
    «Non  pranzo mai» disse Homero.  «Faccio un unico pasto la sera a casa
    mia.»
    «Faccia un'eccezione per oggi» gli disse lui con tutto il suo  fascino
    a fior di pelle. «La invito a pranzo.»
    Lo  prese per un braccio e lo guidò fino al ristorante di fronte,  col
    nome dorato sul tendaggio di tela  plastificata:  Le  Boeuf  Couronné.
    L'interno  era  raccolto e caldo,  e non sembrava che ci fossero posti
    liberi.  Homero Rey,  stupito che nessuno riconoscesse il  presidente,
    proseguì sino in fondo alla sala per chiedere aiuto.
    «E' un presidente in carica?» gli domandò il proprietario.
    «No» disse Homero. «Deposto.»
    Il proprietario se ne uscì in un sorriso di consenso.
    «Per loro» disse «ho sempre un tavolo speciale.»
    Li  guidò  a un tavolo appartato in fondo alla sala dove era possibile
    chiacchierare con agio. Il presidente lo ringraziò.
    «Non tutti riconoscono come lei la dignità dell'esilio» disse.
    La specialità della casa erano le costate  di  manzo  alla  brace.  Il
    presidente  e  il  suo  invitato si guardarono intorno,  e videro agli
    altri tavoli i grossi pezzi arrostiti con un bordo di  grasso  tenero.
    «E'  una  carne  magnifica»  mormorò  il  presidente.  «Ma  me l'hanno
    proibita.» Fissò su Homero uno sguardo discolo, e cambiò tono.
    «In realtà, mi hanno proibito tutto.»
    «Le hanno proibito  pure  il  caffè»  disse  Homero,  «e  tuttavia  lo
    prende.»
    «Se  n'è  accorto?»  disse  il  presidente.  «Ma  oggi  è  stata  solo
    un'eccezione in una giornata eccezionale.»
    L'eccezione di quel giorno non fu solo  il  caffè.  Ordinò  anche  una
    costata di manzo alla brace e un'insalata di verdura fresca senz'altro
    condimento  che  un goccio di olio d'oliva.  Il suo invitato ordinò le
    stesse cose, più mezza caraffa di vino rosso.
    Mentre aspettavano la carne,  Homero  tirò  fuori  dalla  tasca  della
    giacca un portafogli senza denaro e con molti pezzi di carta, e mostrò
    al  presidente  una  foto  sbiadita.  Lui  si  riconobbe in maniche di
    camicia,  con parecchi chili di meno e i capelli e i baffi di un color
    nero  intenso,  in  mezzo a una ressa di giovani che si alzavano sulla
    punta dei piedi per comparire meglio nella foto.  Con un solo  sguardo
    riconobbe  il luogo,  riconobbe gli emblemi di una campagna elettorale
    esecrabile, riconobbe il giorno ingrato. «Che orrore!» mormorò.  «L'ho
    sempre detto che si invecchia più in fretta nelle fotografie che nella
    vita reale.» E restituì la foto con un gesto da ultimo atto.
    «Ricordo  benissimo»  disse.  «E' stato migliaia di anni fa nell'arena
    per i combattimenti dei galli a San Cristóbal de las Casas.»
    «E' il mio paese» disse Homero, e indicò se stesso nel gruppo. «Questo
    sono io.»
    Il presidente lo riconobbe.
    «Era un bambino!»
    «Quasi» disse Homero.  «Sono stato con lei per tutta la  campagna  del
    sud  come capo delle brigate universitarie.» Il presidente prevenne il
    rimprovero.
    «Io, è ovvio, neppure mi accorgevo di lei» disse.
    «Al contrario,  era molto gentile con noi» disse Homero.  «Ma  eravamo
    così tanti che non è possibile che si ricordi.»
    «E poi?»
    «Chi può saperlo meglio di lei?» disse Homero.  «Dopo l'intervento dei
    militari è un miracolo che tutt'e due  ci  ritroviamo  qui,  pronti  a
    mangiarci mezzo bue. Non tutti hanno avuto la stessa fortuna.»
    In  quel  momento portarono i loro piatti.  Il presidente si annodò il
    tovagliolo intorno al collo, come un bavagliolo,  e non fu insensibile
    al   silenzioso  stupore  dell'invitato.   «Se  non  facessi  così  ci
    rimetterei una cravatta a  ogni  pasto»  disse.  Prima  di  cominciare
    controllò   la   morbidezza  della  carne,   l'approvò  con  un  gesto
    compiaciuto, e riprese il discorso.
    «Quel che non mi spiego» disse «è perché non mi si è avvicinato  prima
    invece di starmi dietro come un segugio.»
    Allora  Homero  gli  raccontò  che  l'aveva riconosciuto fin da quando
    l'aveva visto entrare nell'ospedale da una  porta  riservata  ai  casi
    molto speciali.  Era piena estate, e lui indossava il completo di lino
    bianco  delle  Antille,  con  scarpe  intonate  bianche  e  nere,   la
    margherita  all'occhiello,  e  la bella chioma scompigliata dal vento.
    Homero aveva appurato  che  era  solo  a  Ginevra,  senza  l'aiuto  di
    nessuno,  perché conosceva a memoria la città dove aveva finito i suoi
    studi di legge.  La direzione  dell'ospedale,  dietro  sua  richiesta,
    aveva preso le precauzioni interne per garantire l'incognito assoluto.
    Quella  stessa sera,  Homero si era messo d'accordo con sua moglie per
    prendere contatto  con  lui.  Tuttavia,  l'aveva  seguito  per  cinque
    settimane  cercando  un'occasione propizia,  e forse non sarebbe stato
    capace di salutarlo se lui non l'avesse affrontato.
    «Mi rallegro che l'abbia fatto» disse il presidente «anche se,  a dire
    il vero, non mi dispiace affatto stare da solo.»
    «Non è giusto.»
    «Perché?»  domandò  il presidente con sincerità.  «La maggior vittoria
    della mia vita è stata far sì che mi dimenticassero.»
    «Noi la ricordiamo più di quanto lei possa  immaginare»  disse  Homero
    senza nascondere la sua emozione.  «E' una gioia vederla così,  sano e
    giovane.»
    «Tuttavia» disse lui senza drammatizzare,  «tutto  indica  che  morirò
    molto presto.»
    «Le sue probabilità di uscirne bene sono assai alte» disse Homero.
    Il  presidente  ebbe  un  sobbalzo di stupore,  ma non perdette il suo
    umorismo.
    «Ah,  cazzo!» esclamò.  «Nella bella Svizzera è forse stato abolito il
    segreto medico?»
    «In  nessun  ospedale  del  mondo ci sono segreti per un conduttore di
    ambulanza» disse Homero.
    «Ma quel che io  so  l'ho  saputo  solo  due  ore  fa  e  dalla  bocca
    dell'unica persona che doveva saperlo.»
    «Comunque,  lei  non  morirebbe  invano»  disse  Homero.  «Qualcuno la
    collocherà nel posto che le spetta come un grande esempio di dignità.»
    Il presidente finse uno stupore comico.
    «Grazie per avermi informato» disse.
    Mangiava  così  come  faceva  ogni  cosa:  piano  e  con  una   grande
    correttezza. Intanto guardava Homero dritto negli occhi, sicché questi
    aveva l'impressione di vedere quel che lui pensava.  Al termine di una
    lunga chiacchierata a base di evocazioni nostalgiche,  fece un sorriso
    maligno.
    «Avevo  deciso  di  non preoccuparmi del mio cadavere» disse,  «ma ora
    vedo  che  devo  prendere  certe  precauzioni  da  romanzo  poliziesco
    affinché nessuno lo trovi.»
    «Sarà  inutile» scherzò Homero a sua volta.  «All'ospedale non ci sono
    segreti che durino più di un'ora.»
    Quando ebbero finito il caffè,  il presidente lesse i fondi della  sua
    tazza, e di nuovo rabbrividì: il messaggio era lo stesso. Tuttavia, la
    sua espressione non si alterò.  Pagò in contanti, ma prima verificò il
    totale più  volte,  controllò  più  volte  il  denaro  con  attenzione
    eccessiva,  e lasciò una mancia che riscosse solo un grugnito da parte
    del cameriere.
    «E' stato un piacere» concluse,  congedandosi da Homero.  «Non ho  una
    data  per l'operazione,  e non ho neppure deciso se mi ci sottoporrò o
    meno. Ma se tutto va bene ci rivedremo.»
    «E perché non prima?» disse Homero. «Lázara,  mia moglie,  è un'ottima
    cuoca.  Nessuno  prepara  il  riso  con i gamberi meglio di lei,  e ci
    farebbe piacere averla da noi una di queste sere.»
    «Mi hanno proibito i frutti di mare,  ma li mangerò con molto piacere»
    disse lui. «Mi dica quando.»
    «Il giovedì è la mia giornata libera» disse Homero.
    «Perfetto»  disse il presidente.  «Giovedì sera alle sette sarò a casa
    sua. Sarà un piacere.»
    «Io passerò a prenderla» disse Homero.  «Hôtellerie Dames,  14 rue  de
    l'Industrie. Dietro la stazione. E' giusto?»
    «Giusto»  disse  il presidente,  e si alzò più fascinoso che mai.  «Di
    certo, conoscerà persino il mio numero di scarpe.»
    «Proprio così, signore» disse Homero, divertito: «il quarantuno».

    Quel che Homero Rey non raccontò al  presidente,  ma  che  continuò  a
    raccontare  per  anni  a  chiunque  volesse ascoltarlo,  fu che la sua
    intenzione  iniziale  non  era  stata  così  innocente.   Come   altri
    conduttori di ambulanza,  era in contatto con imprese di pompe funebri
    e compagnie di assicurazioni per  vendere  servizi  all'interno  dello
    stesso  ospedale,  soprattutto  a  pazienti stranieri di scarsi mezzi.
    Erano  guadagni  minimi,  e  inoltre  bisognava  spartirli  con  altri
    impiegati  che  si  passavano  di mano in mano le informazioni segrete
    sugli ammalati gravi.  Ma era un valido aiuto per  un  esiliato  senza
    avvenire  che sopravviveva assai malamente con la moglie e i due figli
    grazie a uno stipendio ridicolo.
    Lázara Davis, sua moglie, fu più realista.  Era una mulatta sottile di
    San  Juan  de  Puerto  Rico,  minuta e robusta,  color del caramello a
    riposo e  con  certi  occhi  da  cagna  selvaggia  che  si  intonavano
    benissimo  al  suo modo di essere.  Si erano conosciuti nel reparto di
    assistenza pubblica dell'ospedale,  dove lei  lavorava  come  aiutante
    tuttofare  dopo che un finanziere del suo paese,  che se l'era portata
    appresso come bambinaia,  l'aveva lasciata alla deriva a  Ginevra.  Si
    erano  sposati  secondo  il  rito  cattolico  anche  se  lei  era  una
    principessa yoruba,  e abitavano in un salottino e due camere da letto
    all'ottavo   piano  senza  ascensore  di  un  edificio  per  emigranti
    africani. Avevano una bambina di nove anni,  Bárbara,  e un bambino di
    sette, Lázaro, con qualche piccolo indizio di ritardo mentale.
    Lázara  Davis  era intelligente e con un brutto carattere,  per quanto
    fosse di cuore tenero. Considerava se stessa un Toro puro; e aveva una
    fiducia cieca nei suoi  pronostici  astrali.  Tuttavia,  non  era  mai
    riuscita a realizzare il sogno di guadagnarsi da vivere come astrologa
    per milionari.  In cambio,  portava in casa contributi occasionali,  e
    talvolta  importanti,  preparando  cene  per  signore  ricche  che  si
    pavoneggiavano  con  gli invitati facendo credere che avevano cucinato
    loro gli eccitanti piatti delle Antille.  Homero,  da parte  sua,  era
    timido  quant'altri mai,  e non sapeva valorizzare il poco che faceva,
    ma Lázara non concepiva la vita senza di lui per l'innocenza  del  suo
    cuore  e  il calibro della sua arma.  Se l'erano passata bene,  ma gli
    anni si susseguivano sempre più  duri  e  i  bambini  crescevano.  Nel
    periodo  in  cui  era  arrivato  il  presidente  avevano  cominciato a
    intaccare i loro risparmi di cinque anni.  Sicché  quando  Homero  Rey
    l'aveva scoperto fra gli ammalati in incognito dell'ospedale, si erano
    fatti grandi illusioni.
    Non  sapevano  cosa  esattamente gli avrebbero proposto,  né con quale
    diritto.   Sulle  prime  avevano  pensato  di  vendergli  il  funerale
    completo,  compresi l'imbalsamazione e il rimpatrio.  Ma a poco a poco
    si  erano  resi  conto  che  la  morte  non  sembrava  imminente  come
    all'inizio. Il giorno del pranzo erano ormai frastornati dai dubbi.
    Il  fatto è che Homero non era stato capo delle brigate universitarie,
    né alcunché del genere,  e l'unica volta che aveva  preso  parte  alla
    campagna  elettorale era stato quando gli avevano scattato la foto che
    erano riusciti  a  scovare  per  miracolo  in  mezzo  ad  altre  carte
    nell'armadio.  Ma  il  suo  fervore era vero.  Era pure vero che aveva
    dovuto fuggire dal paese  per  la  sua  resistenza  in  strada  contro
    l'intervento  dei  militari,  anche se l'unico motivo per continuare a
    vivere a Ginevra dopo tanti anni era la sua povertà di spirito. Sicché
    una bugia in  più  o  in  meno  non  doveva  essere  un  ostacolo  per
    guadagnarsi i favori del presidente.
    La prima sorpresa di entrambi fu che l'esiliato illustre vivesse in un
    albergo  di  quarta  categoria nel quartiere triste della Grotte,  fra
    emigrati asiatici e farfalle della notte,  e  che  mangiasse  solo  in
    trattorie per poveri,  mentre Ginevra era piena di residenze dignitose
    per politici in disgrazia.  Homero l'aveva visto  ripetere  un  giorno
    dopo  l'altro  le  azioni di quel giorno.  L'aveva accompagnato con lo
    sguardo,  e talvolta a una  distanza  meno  che  prudente,  nelle  sue
    passeggiate  notturne  fra  i  muri  lugubri  e i viluppi di campanule
    gialle della città vecchia. L'aveva visto assorto per ore davanti alla
    statua di Calvino.  Aveva salito dietro di  lui  passo  per  passo  la
    scalinata di pietra,  soffocato dal profumo ardente dei gelsomini, per
    contemplare i lenti tramonti dell'estate dalla cima del Bourg-le-Four.
    Una sera l'aveva visto sotto la prima pioviggine  senza  soprabito  né
    ombrello,  che  faceva  la  coda  con  gli studenti per un concerto di
    Rubinstein.  «Non so come non gli sia venuta una polmonite» aveva  poi
    detto alla moglie. Il sabato prima, quando il tempo aveva cominciato a
    cambiare,  l'aveva visto comprarsi un soprabito autunnale con un collo
    di finto visone,  ma non nei negozi luminosi di  rue  du  Rhône,  dove
    compravano gli emiri in fuga, bensì al Mercato delle Pulci.
    «Allora  non  c'è nulla da fare!» aveva esclamato Lázara quando Homero
    gliel'aveva raccontato.  «E' un taccagno di  merda,  capace  di  farsi
    seppellire dalla beneficenza nella fossa comune.  Non gli caveremo mai
    nulla.»
    «Forse è davvero povero» disse Homero, «dopo tanti anni senza lavoro.»
    «Ahi, caro mio, una cosa è esser Pesci con ascendente Pesci e un'altra
    è essere un furbone» disse Lázara. «Tutti lo sanno che se l'è svignata
    con l'oro del governo e che è l'esiliato più ricco della Martinica.»
    Homero, che era più vecchio di dieci anni, era cresciuto impressionato
    dalla notizia che il presidente aveva studiato  a  Ginevra,  lavorando
    come operaio edile.  Invece Lázara era stata allevata fra gli scandali
    della stampa nemica, magnificati in una casa di nemici,  dov'era stata
    bambinaia fin da piccola. Sicché la sera in cui Homero arrivò oppresso
    dalla gioia perché aveva pranzato col presidente, a lei non importò il
    fatto  che  l'avesse invitato in un ristorante costoso.  Le dispiacque
    che Homero non gli  avesse  chiesto  nulla  di  tutto  quanto  avevano
    sognato,  dalle  borse  di  studio  per  i bambini a un posto migliore
    all'ospedale.  Le sembrò una conferma dei propri sospetti la decisione
    che buttassero il suo cadavere agli avvoltoi invece di spendere i suoi
    franchi  in un funerale dignitoso e in un rimpatrio glorioso.  Ma quel
    che fece traboccare il vaso fu la notizia che Homero aveva serbato per
    la fine,  quando venne a sapere che aveva  invitato  il  presidente  a
    mangiare il riso con i gamberi il giovedì sera.
    «Proprio  questo  ci  mancava»  gridò  Lázara,   «che  ci  muoia  qui,
    avvelenato da gamberi di merda,  e  che  dobbiamo  seppellirlo  con  i
    risparmi dei bambini.»
    Quel  che  infine  determinò il suo comportamento fu il peso della sua
    lealtà coniugale.  Dovette chiedere  in  prestito  a  una  vicina  tre
    coperti  completi di alpaca e un'insalatiera di cristallo,  a un'altra
    una caffettiera elettrica,  a un'altra ancora una tovaglia ricamata  e
    un servizio da caffè cinese. Cambiò le tende vecchie con quelle nuove,
    che  usavano  solo  nei giorni di festa,  e tolse le fodere ai mobili.
    Passò una giornata intera fregando i pavimenti,  togliendo la polvere,
    spostando  le cose,  finché non ottenne il contrario di quanto sarebbe
    stato più opportuno, che era commuovere il presidente col decoro della
    povertà.
    Il giovedì sera,  dopo essersi ripreso dallo  sfiatamento  degli  otto
    piani,  il presidente apparve sulla soglia col nuovo soprabito vecchio
    e la bombetta di altri tempi,  e con una sola rosa per Lázara.  Lei fu
    impressionata  dalla  sua bellezza virile e dai suoi modi da principe,
    ma al di là di tutto questo lo vide  come  si  aspettava  di  vederlo:
    falso e rapace.  Le sembrò impertinente, perché lei aveva cucinato con
    le finestre aperte per evitare che il vapore dei  gamberi  impregnasse
    la  casa,  e la prima cosa che lui fece entrando fu inspirare a fondo,
    come in un'estasi improvvisa,  ed esclamare a occhi chiusi  e  con  le
    braccia  spalancate:  «Ah,  l'odore  del nostro mare!».  Le sembrò più
    taccagno che mai perché le portava una sola rosa,  sicuramente  rubata
    nei  giardini  pubblici.  Le  sembrò insolente,  per lo sdegno con cui
    guardò i ritagli di giornali  sulle  sue  glorie  presidenziali,  e  i
    gagliardetti e le bandierine della campagna,  che Homero aveva affisso
    con tante illusioni alle pareti del salotto.  Le sembro duro di cuore,
    perché neppure salutò Bárbara e Lázaro,  che avevano per lui un regalo
    fatto da loro,  e nel corso della cena accennò  a  due  cose  che  non
    poteva sopportare: i cani e i bambini. Lo odiò. Tuttavia, il suo senso
    caraibico  dell'ospitalità  si impose sui pregiudizi.  Si era messa il
    camicione africano delle  sue  serate  di  festa  e  le  collane  e  i
    braccialetti stregoneschi, e durante la cena non fece un solo gesto né
    disse  una  sola  parola  più del necessario.  Fu più che impeccabile:
    perfetta.
    Il fatto era che il riso con  i  gamberi  non  rientrava  fra  le  sue
    specialità culinarie,  ma lo preparò con tutta la sua buona volontà, e
    le  riuscì  benissimo.   Il  presidente  si  servì  due  volte   senza
    risparmiare lodi,  e andò in sollucchero per le fette di banana matura
    fritta e per l'insalata di avocado,  anche se non spartì le nostalgie.
    Lázara si rassegnò ad ascoltare fino al dolce, quando Homero si infilò
    senza che venisse a proposito nel vicolo cieco dell'esistenza di Dio.
    «Io  ci credo che esiste» disse il presidente,  «ma non ha nulla a che
    vedere con gli esseri umani. E' preso da cose molto più importanti.»
    «Io credo solo negli astri» disse Lázara,  e scrutò  la  reazione  del
    presidente. «Lei in che giorno è nato?»
    «Undici marzo.»
    «Così doveva essere» disse Lázara con un sussulto trionfale, e domandò
    con garbo: «Non saranno troppi due Pesci alla stessa tavola?».
    Gli  uomini  continuavano  a  parlare  di Dio mentre lei se ne andò in
    cucina a preparare il caffè.  Aveva ritirato gli avanzi  del  pasto  e
    desiderava  con  tutta  la  sua  anima che la serata finisse bene.  Di
    ritorno in salotto col caffè colse una frase  isolata  del  presidente
    che la lasciò attonita.
    «Non  ne  dubiti,  mio  caro amico: il peggio che è potuto accadere al
    nostro povero paese è che io ne sia stato il presidente.»
    Homero vide Lázara sulla soglia con le tazze cinesi e  la  caffettiera
    imprestata,  e credette che stesse per svenire. Anche il presidente la
    notò. «Non mi guardi così, signora» le disse con garbo.  «Sto parlando
    col cuore.» E poi, volgendosi verso Homero, concluse:
    «Meno male che sto pagando cara la mia idiozia.»
    Lázara servì il caffè,  spense la lampada zenitale sulla tavola la cui
    luce inclemente disturbava la conversazione,  e il salotto  rimase  in
    una penombra intima.  Per la prima volta si interessò all'invitato, il
    cui umorismo non riusciva a occultarne la tristezza.  La curiosità  di
    Lázara  crebbe  quando  lui  finì  il  caffè  e  rovesciò la tazza sul
    piattino affinché i fondi sedimentassero.
    Durante il dopocena il  presidente  raccontò  loro  che  aveva  scelto
    l'isola  della Martinica per il suo esilio,  a causa dell'amicizia col
    poeta Aimé Césaire,  che in quegli anni aveva appena pubblicato il suo
    "Cahier  d'un  retour  au  pays natal",  e gli aveva offerto aiuto per
    iniziare una nuova vita. Con quanto rimaneva dell'eredità della moglie
    avevano comprato una casa di legno pregiato sulle colline di  Fort  de
    France, con grate alle finestre e una terrazza sul mare piena di fiori
    primitivi,  dove era un piacere dormire con lo schiamazzo dei grilli e
    la brezza di melassa e rum di canna dei frantoi. Era rimasto lì con la
    moglie,  di quattordici anni più anziana di lui e malata dopo  il  suo
    unico parto,  trincerato contro il destino nella rilettura viziosa dei
    suoi classici latini,  in latino,  e con la convinzione che quello era
    l'ultimo  atto  della  sua vita.  Per anni aveva dovuto resistere alle
    tentazioni di ogni sorta di  avventure  che  gli  proponevano  i  suoi
    partigiani sconfitti.
    «Ma  non ho mai più aperto una lettera» disse.  «Mai,  dopo aver preso
    atto che perfino le più urgenti erano meno urgenti dopo una settimana,
    e che dopo due mesi neppure chi le aveva scritte se ne ricordava.»
    Guardò Lázara nella penombra quando si accese una sigaretta,  e gliela
    tolse  con  un  gesto  rapido  delle  dita.  Aspirò  profondamente,  e
    trattenne il fumo in gola.  Lázara,  stupita,  prese il pacchetto e  i
    fiammiferi per accendersene un'altra,  ma lui le restituì la sigaretta
    accesa.
    «Lei  fuma  con  tale  piacere  che  non  ho  potuto  resistere   alla
    tentazione» le disse. Ma dovette soffiare fuori il fumo perché ebbe un
    inizio di tosse.
    «Mi  sono  tolto  il  vizio  da  molti  anni,  ma  lui  non si è tolto
    completamente da me» disse.  «Certe volte è riuscito a vincermi.  Come
    adesso.»
    La tosse lo scrollò ancora due volte.  Tornò il dolore.  Il presidente
    guardò l'ora all'orologio da taschino,  e prese le due compresse della
    sera.  Poi  scrutò  i  fondi  della tazza: non era cambiato nulla,  ma
    questa volta non ebbe brividi.
    «Alcuni miei partigiani sono stati presidenti dopo di me» disse.
    «Sáyago» disse Homero.
    «Sáyago e altri» disse lui. «Tutti come me: lì a usurpare un onore che
    non meritavamo con un mestiere che non sapevamo fare. Alcuni inseguono
    solo il potere, ma la maggioranza cerca ancora meno: un lavoro.»
    Lázara si contrasse.
    «Lo sa quel che dicono di lei?» gli domandò.
    Homero, allarmato, intervenne:
    «Sono bugie.»
    «Sono bugie  e  non  lo  sono»  disse  il  presidente  con  una  calma
    celestiale.  «Trattandosi  di  un  presidente,  le  peggiori ignominie
    possono essere tutt'e due le cose al contempo: verità e bugia.»
    Aveva vissuto alla Martinica tutti i giorni dell'esilio,  senza  altri
    contatti  con  l'esterno  che le poche notizie del giornale ufficiale,
    sostentandosi con lezioni di spagnolo e di latino in un liceo locale e
    con le traduzioni che talvolta gli affidava Aimé Césaire. Il caldo era
    insopportabile in agosto,  e lui se  ne  rimaneva  nell'amaca  fino  a
    mezzogiorno,  leggendo  ninnato dal ventilatore a pale della camera da
    letto.  La moglie si occupava degli uccelli che allevava  in  libertà,
    anche  nelle  ore  di  maggior  caldo,  proteggendosi  dal sole con un
    cappello di paglia dalle ampie tese, abbellito con fragole artificiali
    e fiori di organza.  Ma quando il caldo calava era bello  prendere  il
    fresco  sulla  terrazza,  lui con lo sguardo fisso sul mare finché non
    sprofondava nelle tenebre,  e lei sulla sua sedia a dondolo di vimini,
    col  cappello  rotto  e  gli  anelli  di bigiotteria su tutte le dita,
    vedendo passare le navi del mondo.  «Quella va a Puerto Santo»  diceva
    lei.  «Quella  quasi  non può avanzare per via del carico di banane di
    Puerto Santo» diceva.  Perché le sembrava impossibile che passasse una
    nave che non fosse del suo paese.  Lui faceva il sordo,  anche se alla
    fine lei era riuscita a dimenticare meglio di lui,  perché era rimasta
    senza  memoria.  Se  ne  stavano  così  finché  non  si  spegnevano  i
    crepuscoli fragorosi,  e dovevano rifugiarsi in casa  sconfitti  dalle
    zanzare. In uno di quei tanti agosti, mentre leggeva il giornale sulla
    terrazza, il presidente ebbe un sobbalzo di meraviglia.
    «Ah, cazzo!» disse. «Sono morto a Estoril!»
    La moglie,  levitando nel sopore,  si spaventò alla notizia. Erano sei
    righe sulla quinta pagina del giornale che veniva stampato proprio  lì
    all'angolo,  dove si pubblicavano le sue traduzioni occasionali,  e il
    cui direttore passava a trovarlo di tanto in tanto.  E  adesso  diceva
    che era morto a Estoril de Lisboa,  centro balneare e roccaforte della
    decadenza europea,  dove non era mai stato,  e forse l'unico posto del
    mondo  dove non avrebbe voluto morire.  La moglie era morta davvero un
    anno  dopo,   tormentata  dall'ultimo  ricordo  che  le  rimaneva   in
    quell'istante:  il  ricordo  dell'unico figlio,  che aveva preso parte
    alla cacciata del padre,  ed era poi stato fucilato  dai  suoi  stessi
    complici.
    Il  presidente sospirò.  «Così siamo,  e nulla potrà redimerci» disse.
    «Un continente concepito  dalla  feccia  del  mondo  intero  senza  un
    istante d'amore: figli di rapimenti,  di stupri,  di patti infami,  di
    inganni, di nemici con nemici.» Affrontò gli occhi africani di Lázara,
    che lo squadravano senza pietà,  e cercò  di  ammansirla  con  la  sua
    loquela da vecchio maestro.
    «La  parola  meticciato  significa mescolare le lacrime col sangue che
    scorre. Cosa ci si può aspettare da una simile mistura?»
    Lázara lo inchiodò lì dov'era con un silenzio di morte.  Ma  riuscì  a
    riprendersi,  poco  prima della mezzanotte,  e lo congedò con un bacio
    formale.   Il  presidente  rifiutò   che   Homero   lo   accompagnasse
    all'albergo,  ma  non  riuscì  a impedire che lo aiutasse a cercare un
    taxi. Di ritorno a casa trovò Lázara alterata dall'ira.
    «Quello lì è il presidente meglio trombato del mondo» disse  lei.  «Un
    tremendo figlio di puttana.»
    Malgrado  gli  sforzi che fece Homero per tranquillizzarla,  passarono
    una terribile notte in bianco.  Lázara ammetteva  che  era  uno  degli
    uomini  più  belli  che  avesse  visto,  con  un  potere  di seduzione
    devastante e una virilità da stallone. «Così com'è,  vecchio e finito,
    a  letto deve essere ancora un leone» disse.  Ma credeva che quei doni
    di Dio li avesse sprecati al servizio della  simulazione.  Non  poteva
    sopportare  quelle  millanterie  di essere stato il peggior presidente
    del paese. Né le sue arie da asceta,  essendo convinta che era padrone
    della metà degli zuccherifici della Martinica.  Né l'ipocrisia del suo
    sdegno per il potere,  essendo evidente che avrebbe dato tutto pur  di
    tornare per un solo minuto alla presidenza e far mordere la polvere ai
    suoi nemici.
    «E  tutto  questo»  concluse  «solo  per farci star lì appesi alle sue
    labbra.»
    «E cosa ci guadagnerebbe?»
    «Nulla» disse lei. «Il fatto è che la civetteria è un vizio che non si
    sazia mai.»
    Era tanta la sua ira,  che Homero non riuscì a sopportarla nel letto e
    andò  a finire la notte avvolto in una coperta sul divano del salotto.
    Anche Lázara si alzò all'alba,  nuda  da  capo  a  piedi,  come  aveva
    l'abitudine di dormire e di stare in casa, e parlando con se stessa in
    un monologo a una sola corda.  A un certo punto cancellò dalla memoria
    dell'umanità ogni traccia della cena malaugurata.  Restituì nel  primo
    mattino  le  cose prese in prestito,  cambiò le tende nuove con quelle
    vecchie e rimise i mobili al loro posto,  finché la casa non ridivenne
    povera  e  dignitosa  come  lo era stata fino alla sera prima.  Infine
    strappò via i ritagli di giornale,  i  ritratti,  le  bandierine  e  i
    gagliardetti   della   campagna  abominevole,   e  buttò  tutto  nella
    pattumiera con un grido finale.
    «A fa'n culo!»

    Una settimana  dopo  la  cena,  Homero  trovò  il  presidente  che  lo
    aspettava  all'uscita dall'ospedale,  con la supplica di accompagnarlo
    al suo albergo.  Salirono i tre piani ripidi fino alla mansarda con un
    solo  abbaino  che  dava su un cielo di cenere,  e attraversata da una
    corda  con  biancheria  stesa  ad  asciugare.  C'era  anche  un  letto
    matrimoniale che occupava metà dello spazio, una seggiola semplice, un
    lavamano e un bidet portatile,  e un armadio da poveri con lo specchio
    rannuvolato. Il presidente notò lo stupore di Homero.
    «E' la stessa stamberga dove ho trascorso i miei anni da studente» gli
    disse, come per scusarsi. «L'ho riservata da Fort de France.»
    Tolse da una borsa di velluto e sciorinò sul  letto  l'ultimo  residuo
    dei  suoi  averi:  diversi braccialetti d'oro con varie lavorazioni di
    pietre preziose,  una collana di perle a tre giri e altre due d'oro  e
    pietre  preziose;  tre catene d'oro con medaglie di santi e un paio di
    orecchini d'oro con smeraldi,  un altro con diamanti e un altro ancora
    con  rubini;  due  reliquiari  e un medaglione per conservare capelli,
    undici anelli con ogni sorta di montature preziose  e  un  diadema  di
    brillanti  che  poteva  essere  stato  di una regina.  Poi tolse da un
    astuccio a parte tre paia di gemelli  d'argento  e  due  d'oro  con  i
    relativi  fermacravatta,  e  un  orologio  da  taschino placcato d'oro
    bianco.  Infine tolse da una scatola da scarpe le sue sei decorazioni:
    due d'oro, una d'argento, e il resto, pura latta.
    «E' tutto quel che mi rimane nella vita» disse.
    Non  aveva  altra  scelta  che  vendere  tutto  per  saldare  le spese
    ospedaliere,  e desiderava che Homero gli facesse quel favore  con  la
    maggiore  riservatezza.   Tuttavia  Homero  non  si  sentì  capace  di
    accontentarlo finché non avesse avuto le regolari fatture.
    Il presidente gli spiegò che erano i gioielli di sua moglie  ereditati
    da una nonna coloniale che a sua volta aveva ereditato un pacchetto di
    azioni  in  miniere  d'oro  in  Colombia.  L'orologio,  i  gemelli e i
    fermacravatta erano suoi.  Le decorazioni,  ovviamente,  non erano mai
    state di nessun altro.
    «Non credo sia possibile avere fatture di cose del genere» disse.
    Homero  fu  inflessibile.  «In tal caso» rifletté il presidente,  «non
    avrò altra scelta che espormi di persona.»
    Si mise a raccogliere i gioielli con una calma calcolata. «La prego di
    perdonarmi,  mio caro Homero,  ma non c'è peggior povertà di quella di
    un   presidente  povero»  gli  disse.   «Perfino  sopravvivere  sembra
    indecoroso.» In quell'istante,  Homero lo vide per la prima volta  col
    cuore, e gli si arrese.
    Quella  sera,  Lázara  tornò  tardi  a  casa.  Fin dalla soglia vide i
    gioielli scintillanti sotto la luce mercuriale della sala da pranzo, e
    fu come se avesse visto uno scorpione nel suo letto.
    «Non essere stupido, Homero» disse, spaventata.  «Perché quei preziosi
    sono qui?»
    La  spiegazione  di  Homero  la  inquietò ancora di più.  Si sedette a
    esaminare i gioielli, a uno a uno, con una meticolosità da orefice.  A
    un  certo punto sospirò: «Devono valere una fortuna».  Infine rimase a
    guardare Homero senza trovare via di scampo al suo offuscamento.
    «Cazzo» disse.  «Come si fa a sapere se tutto quanto dice quell'uomo è
    vero?»
    «E  perché no?» disse Homero.  «Ho appena visto che si lava da solo la
    biancheria e che se l'asciuga in una stanza come noi, appesa a un filo
    di ferro.»
    «Per taccagneria» disse Lázara.
    «O per povertà» disse Homero.
    Lázara riprese a esaminare i gioielli,  ma ora  con  meno  attenzione,
    perché  pure  lei  era  esausta.  Sicché  il mattino dopo si vestì con
    quanto di  meglio  possedeva,  si  agghindò  con  i  gioielli  che  le
    sembrarono  più  costosi,  si mise tutti gli anelli che fu possibile a
    ogni dito,  persino al pollice,  e tutti  i  braccialetti  che  le  fu
    possibile infilarsi in ogni braccio,  e andò a venderli.  «Vediamo chi
    ha il coraggio di chiedere fatture  a  Lázara  Davis»  disse  uscendo,
    mentre si pavoneggiava e rideva. Scelse la gioielleria giusta, con più
    pretese che prestigio,  dove sapeva che si vendeva e si comprava senza
    troppe domande, ed entrò terrorizzata ma con incedere sicuro.
    Un commesso vestito da cerimonia,  asciutto  e  pallido,  le  fece  un
    inchino  teatrale  baciandole  la  mano,  e  si  mise  ai suoi ordini.
    L'interno era più chiaro del giorno,  per via degli  specchi  e  delle
    luci intense,  e il negozio intero sembrava di diamante. Lázara, senza
    guardare più del necessario il commesso per timore che  si  accorgesse
    della sua farsa, proseguì sino in fondo.
    Il  commesso  la invitò a sedersi davanti a uno dei tre scrittoi Luigi
    Quindicesimo che fungevano da banchi individuali, e vi spiegò sopra un
    fazzoletto immacolato. Poi si sedette di fronte a Lázara, e attese.
    «In cosa posso esserle utile?»
    Lei si sfilò gli anelli,  i braccialetti,  le collane,  gli orecchini,
    tutto  quel che portava addosso,  e li ripose sopra lo scrittoio in un
    ordine da scacchiera. L'unica cosa che voleva, disse, era conoscere il
    loro valore autentico.
    Il gioielliere si infilò il monocolo all'occhio sinistro, e cominciò a
    esaminare i gioielli in un silenzio clinico.  Dopo un  lungo  momento,
    senza interrompere l'esame, domandò:
    «Di dov'è lei?»
    Lázara non aveva previsto quella domanda.
    «Ah, signore» sospirò. «Di molto lontano.»
    «Me lo immagino» disse lui.
    Tacque di nuovo,  mentre Lázara lo scrutava senza misericordia,  con i
    suoi terribili occhi  d'oro.  Il  gioielliere  consacrò  un'attenzione
    speciale  al  diadema  di diamanti,  e lo scostò dagli altri gioielli.
    Lázara sospirò.
    «Lei è un Vergine perfetto» disse.
    Il gioielliere non interruppe l'esame.
    «Come lo sa?»
    «Dal suo modo di essere» disse Lázara.
    Lui non fece alcun commento finché non ebbe finito, e si rivolse a lei
    con la stessa parsimonia che all'inizio.
    «Da dove viene il tutto?»
    «Eredità di una nonna» disse Lázara con voce tesa.  «E'  morta  l'anno
    scorso a Paramáribo a novantasette anni.»
    Il  gioielliere  la guardò allora negli occhi.  «Mi dispiace molto» le
    disse.  «Ma l'unico valore di queste cose è quanto pesa l'oro.»  Prese
    il  diadema  con  la punta delle dita e lo fece brillare sotto la luce
    accecante.
    «Tranne questo» disse.  «E' molto antico,  forse egiziano,  e  sarebbe
    inestimabile  se  non  fosse  per le cattive condizioni dei brillanti.
    Comunque ha un certo valore storico.»
    Invece,  le pietre delle altre gioie,  le ametiste,  gli  smeraldi,  i
    rubini,  gli opali,  tutte, senza eccezioni, erano false. «Sicuramente
    gli originali erano buoni» disse il gioielliere,  mentre raccoglieva i
    preziosi  per  restituirli.  «Ma a forza di passare da una generazione
    all'altra le pietre autentiche sono rimaste per strada,  sostituite da
    fondi   di   bottiglia.»   Lázara  ebbe  una  nausea  verde,   respirò
    profondamente e dominò il panico. Il commesso la consolò:
    «Accade spesso, signora.»
    «Lo so» disse Lázara, rinfrancata. «Per questo voglio disfarmene.»
    Allora capì di trovarsi al di là della farsa, e fu di nuovo se stessa.
    Senza più  preamboli  prese  dalla  borsa  i  gemelli,  l'orologio  da
    taschino,  i  fermacravatta,  le  decorazioni d'oro e d'argento,  e il
    resto delle cianfrusaglie personali del presidente, e mise tutto sullo
    scrittoio.
    «Anche questo?» domandò il gioielliere.
    «Tutto» disse Lázara.
    I franchi svizzeri con cui la pagarono erano così nuovi che temette di
    macchiarsi le dita con l'inchiostro fresco.
    Li prese senza contarli,  e il gioielliere la congedò sulla soglia con
    la stessa cerimonia del saluto.  Mentre lei usciva,  reggendo la porta
    di cristallo per cederle il passo, la trattenne un istante.
    «E un'ultima cosa, signora» le disse: «io sono dell'Acquario».
    La sera sul presto Homero e Lázara portarono  il  denaro  all'albergo.
    Rifatti  i  conti,  ne mancava ancora un po'.  Sicché il presidente si
    tolse e a mano a mano posò sul letto l'anello matrimoniale, l'orologio
    con la catena e i gemelli e il fermacravatta che stava usando.
    Lázara gli restituì l'anello.
    «Questo no» gli disse. «Un ricordo così non si può vendere.»
    Il presidente annuì e si rimise l'anello.  Lázara  gli  restituì  pure
    l'orologio da taschino.  «Neppure questo» disse.  Il presidente non fu
    d'accordo ma lei lo rimise al suo posto.
    «Chi può pensare di vendere orologi in Svizzera?»
    «Ne abbiamo già venduto uno» disse il presidente.
    «Sì, ma non per l'orologio in sé: era d'oro.»
    «Anche questo è d'oro» disse il presidente.
    «Sì» disse Lázara.  «Lei può anche rimanere da operare,  ma non  senza
    sapere che ora è.»
    Non accettò neppure la montatura d'oro degli occhiali, anche se lui ne
    aveva un altro paio di tartaruga. Soppesò i valori che teneva in mano,
    e mise fine ai suoi dubbi.
    «E poi» disse, «con questi basta.»
    Prima  di  uscire,  raccolse la biancheria bagnata,  senza domandargli
    nulla,  e se la portò  via  per  asciugarla  e  stirarla  a  casa.  Si
    allontanarono  sulla  motoretta,  Homero  che guidava e Lázara dietro,
    stretta  a  lui.   La  luce  dei  lampioni  si   era   appena   accesa
    nell'imbrunire malva.  Il vento aveva trascinato via le ultime foglie,
    e  gli  alberi  sembravano  fossili  spennacchiati.  Un  rimorchiatore
    scendeva lungo il Rodano con una radio a pieno volume che lasciava per
    le  strade  una scia di musica.  Georges Brassens cantava: «"Mon amour
    tiens bien la barre,  le temps va passer par là,  et le temps  est  un
    barbare dans le genre d'Attila,  par là où son cheval passe l'amour ne
    repousse pas"».  Homero e Lázara correvano in silenzio ubriacati dalla
    canzone e dall'odore memorabile dei giacinti.  Dopo un po',  lei parve
    svegliarsi da un lungo sonno.
    «Cazzo» disse.
    «Cosa?»
    «Quel povero vecchio» disse Lázara. «Che vita di merda!»


    Il venerdì successivo, 7 ottobre,  il presidente subì un intervento di
    cinque  ore  che  per  il  momento lasciò le cose oscure come lo erano
    prima.  A rigore,  l'unica consolazione fu sapere che era sempre vivo.
    Dopo  dieci  giorni  lo  trasferirono  in  una stanza insieme ad altri
    malati, e fu possibile visitarlo. Era un altro: disorientato e smunto,
    e con certi capelli radi che gli si staccavano al  solo  contatto  col
    guanciale. Dell'antica prestanza gli rimaneva solo la scioltezza delle
    mani.  Il  suo primo tentativo di camminare con due bastoni ortopedici
    fu  scoraggiante.   Lázara  rimaneva  a  dormire  accanto  a  lui  per
    risparmiargli la spesa di un'infermiera notturna. Uno dei malati della
    stanza passò la prima notte gridando per il panico della morte. Quelle
    veglie interminabili misero fine alle ultime reticenze di Lázara.
    Quattro   mesi   dopo  l'arrivo  a  Ginevra,   lo  dimisero.   Homero,
    amministratore meticoloso  dei  suoi  fondi  esigui,  saldò  il  conto
    dell'ospedale  e lo portò via con l'ambulanza aiutato dai colleghi che
    lo fecero salire fino all'ottavo piano.  Si installò nella camera  dei
    bambini,  che  non  riuscì  mai  a  riconoscere,  e a poco a poco fece
    ritorno alla realtà.  Si impegnò negli esercizi di rieducazione con un
    rigore  militare,  e  riprese  a  camminare  solo col suo bastone.  Ma
    sebbene vestito con i buoni  abiti  di  un  tempo  era  molto  lontano
    dall'essere quello di prima,  sia nell'aspetto sia nel modo di essere.
    Timoroso dell'inverno che si annunciava molto rigido,  e che in realtà
    fu  il più crudo di quanto rimaneva del secolo,  decise di tornare con
    una nave che salpava da Marsiglia il 13 dicembre, contro il parere dei
    medici che volevano tenerlo ancora un po' sotto controllo.  All'ultimo
    momento  il  denaro  non fu sufficiente,  e Lázara volle integrarlo di
    nascosto dal marito intaccando di nuovo i risparmi dei figli,  ma pure
    lì  trovò  meno di quanto supponeva.  Allora Homero le confessò che ne
    aveva preso di nascosto da lei per saldare il conto dell'ospedale.
    «Bene» si rassegnò Lázara.  «Diciamo che  era  il  nostro  figlio  più
    vecchio.»
    L'11  dicembre  lo sistemarono sul treno per Marsiglia sotto una forte
    bufera di neve,  e solo quando furono rincasati trovarono una  lettera
    di commiato sul comodino dei bambini.  Sempre lì aveva lasciato la sua
    fede matrimoniale per Bárbara,  insieme a quella della  moglie  morta,
    che  non  aveva  mai cercato di vendere,  e l'orologio da taschino per
    Lázaro. Siccome era domenica, alcuni originari dei Caraibi che avevano
    scoperto il segreto erano accorsi alla stazione  di  Cornavin  con  un
    gruppo  di  arpe di Veracruz.  Il presidente era senza fiato,  col suo
    soprabito da sciattone e una lunga sciarpa a colori che era  stata  di
    Lázara,  ma  anche  così  rimase  sul  predellino dell'ultima carrozza
    congedandosi col cappello sotto le raffiche  della  bufera.  Il  treno
    cominciava  ad  accelerare quando Homero si accorse che il bastone era
    rimasto a lui.  Corse fino all'estremità del marciapiede e  lo  lanciò
    con  abbastanza forza perché il presidente lo prendesse,  ma cadde fra
    le ruote e venne spezzato. Fu un istante di orrore.  L'ultima cosa che
    Lázara  vide  fu la mano tremula tesa per afferrare il bastone che non
    raggiunse mai,  e il controllore del treno che riuscì  ad  acchiappare
    per  la  sciarpa il vecchio coperto di neve,  e lo riscattò dal vuoto.
    Lázara corse spaventata incontro al marito cercando di ridere  fra  le
    lacrime.
    «Dio mio» gli gridò, «quell'uomo non morirà mai.»
    Arrivò sano e salvo,  secondo quanto annunciò nel suo lungo telegramma
    di ringraziamento.  Non si seppe più nulla di lui per oltre  un  anno.
    Infine arrivò una lettera di sei fogli scritti a mano in cui era ormai
    impossibile  riconoscerlo.  Il dolore era tornato,  intenso e puntuale
    come prima,  ma lui aveva deciso di non badargli e di vivere  la  vita
    così  come  veniva.  Il poeta Aimé Césaire gli aveva regalato un altro
    bastone con incrostazioni di  madreperla,  ma  aveva  risolto  di  non
    usarlo  più.  Erano  sei mesi che mangiava carne regolarmente,  e ogni
    tipo di frutti di mare,  ed era capace di bersi anche venti  tazze  al
    giorno  di  caffè  amaro.  Ma non ne leggeva più i fondi perché i suoi
    pronostici si rivelavano sempre al rovescio.  Il giorno in  cui  aveva
    compiuto  settantacinque  anni si era bevuto qualche bicchierino dello
    squisito rum della Martinica,  che gli aveva fatto benissimo,  e aveva
    ripreso  a  fumare.  Non si sentiva meglio,  naturalmente,  ma neppure
    peggio. Tuttavia, il motivo autentico della lettera era comunicar loro
    che si sentiva tentato di tornare nel  suo  paese  per  mettersi  alla
    testa  di un movimento rinnovatore,  per una causa giusta e una patria
    degna,  fosse anche solo per la gloria meschina di non morire  vecchio
    nel  suo  letto.  In quel senso,  concludeva la lettera,  il viaggio a
    Ginevra era stato provvidenziale.

    giugno 1979.




















    La santa.

    Ventidue anni dopo rividi Margarito Duarte.  Comparve d'improvviso  in
    uno  dei  vicoli  segreti di Trastevere,  e feci fatica a riconoscerlo
    subito per via del suo spagnolo stentato e  del  suo  bell'aspetto  da
    romano  antico.  Aveva  i  capelli bianchi e radi,  e non gli rimaneva
    traccia del portamento lugubre e degli abiti cimiteriali  da  avvocato
    andino  con  cui  era  giunto a Roma per la prima volta,  ma nel corso
    della conversazione riuscii a riscattarlo a poco a poco dalle perfidie
    degli anni e lo rividi così com'era: cauto,  imprevedibile,  e con  la
    tenacia  di uno schiacciasassi.  Prima della seconda tazza di caffè in
    uno dei nostri bar di un tempo, mi azzardai a fargli la domanda che mi
    rodeva dentro.
    «Che ne è stato della santa?»
    «E' sempre lì la santa» mi rispose. «Che aspetta.»
    Solo il tenore Rafael Ribero Silva e io potevamo capire  la  terribile
    carica umana della sua risposta.  Conoscevamo così bene il suo dramma,
    che per anni avevo pensato che Margarito Duarte fosse  il  personaggio
    in cerca d'autore che noi romanzieri aspettiamo per tutta una vita,  e
    se non avevo mai permesso che mi trovasse era  stato  perché  la  fine
    della sua storia mi sembrava inimmaginabile.
    Era  arrivato a Roma in quella primavera radiosa in cui Pio Dodicesimo
    soffriva di una crisi di singhiozzo che né le buone né le male arti di
    medici e mediconi erano riuscite a sconfiggere.  Si allontanava per la
    prima   volta  dal  suo  diruto  villaggio  del  Tolima,   sulle  Ande
    colombiane,  e glielo si  notava  persino  nel  modo  di  dormire.  Si
    presentò una mattina al nostro consolato con la valigia di pino lustro
    che  dalla  forma  e  dalla  grandezza  sembrava  la  custodia  di  un
    violoncello,  ed espose al console  il  motivo  stupefacente  del  suo
    viaggio. Il console telefonò allora al tenore Rafael Ribero Silva, suo
    compatriota,  affinché  gli  trovasse  una  stanza nella pensione dove
    vivevamo entrambi. Così lo conobbi.
    Margarito Duarte non si era spinto oltre  le  elementari,  ma  la  sua
    vocazione  per  le belle lettere gli aveva permesso una formazione più
    ampia grazie alla lettura appassionata di qualsiasi materiale a stampa
    gli fosse  venuto  fra  le  mani.  A  diciotto  anni,  lavorando  come
    impiegato  al municipio,  si era sposato con una bella ragazza che era
    morta di lì a poco mentre partoriva la prima  figlia.  Questa,  ancora
    più bella della madre,  era morta di una febbre generica a sette anni.
    Ma la vera storia di Margarito Duarte era cominciata  sei  mesi  prima
    del suo arrivo a Roma, quando si era dovuto trasferire il cimitero del
    suo villaggio per costruire una pescaia. Come tutti gli abitanti della
    regione,  Margarito  aveva  dissotterrato  le  ossa dei suoi morti per
    portarli nel cimitero nuovo.  Sua  moglie  era  polvere.  Nella  tomba
    attigua, invece, la bambina era ancora intatta dopo undici anni. A tal
    punto,  che  quando  avevano  aperto la bara si era sentito il profumo
    delle  rose  fresche  con  cui  l'avevano  sepolta.   Il   fatto   più
    stupefacente, tuttavia, era che il corpo non aveva peso.
    Centinaia  di  curiosi,  attratti  dal  clamore del miracolo,  avevano
    invaso il villaggio.  Non c'erano dubbi.  L'incorruttibilità del corpo
    era  un  sintomo  inequivocabile  della santità,  e persino il vescovo
    della diocesi aveva ritenuto che  un  simile  prodigio  doveva  essere
    sottoposto  al  verdetto  del  Vaticano.  Sicché  si fece una colletta
    pubblica affinché Margarito Duarte si recasse a  Roma,  a  battagliare
    per  una  causa  che  non era più solo sua né del ristretto ambito del
    villaggio, ma una faccenda della nazione.
    Mentre ci raccontava la  sua  storia  nella  pensione  del  tranquillo
    quartiere  dei Parioli,  Margarito Duarte tolse il lucchetto e aprì il
    coperchio del grazioso baule.  Fu così che il tenore Ribero Silva e io
    fummo  partecipi  del  miracolo.  Non  sembrava  una mummia vizza come
    quelle che si vedono in tanti musei del mondo,  ma una bambina vestita
    da  sposa  che  fosse  rimasta  addormentata dopo una lunga permanenza
    sotto terra.  La pelle era tersa e tiepida,  e gli occhi aperti  erano
    diafani,  e  suscitavano  l'impressione intollerabile che ci vedessero
    dalla morte.  Il raso e le  zagare  finte  della  corona  non  avevano
    resistito  ai  rigori  del tempo in buona salute come la pelle,  ma le
    rose che le avevano messo fra le mani erano sempre vive. Il peso della
    custodia di pino, in effetti, rimase lo stesso quando ne tirammo fuori
    il corpo.
    Margarito Duarte  avviò  i  suoi  tramiti  il  giorno  dopo  l'arrivo.
    All'inizio  con un aiuto diplomatico più compassionevole che efficace,
    e poi con ogni scaltrezza che gli venne  in  mente  per  superare  gli
    innumerevoli ostacoli del Vaticano. Fu sempre riservatissimo sulle sue
    incombenze,  ma si sapeva che erano numerose e inutili.  Si metteva in
    contatto con tutte le congreghe religiose e le  fondazioni  umanitarie
    in  cui  si  imbatteva,  dove  lo  ascoltavano con attenzione ma senza
    stupore, e gli promettevano interventi immediati che non sortirono mai
    alcun effetto.  Il fatto è che quel periodo non fu  il  più  propizio.
    Tutto  quanto  aveva  a  che fare con la Santa Sede era stato rinviato
    finché il Papa non avesse superato la crisi di singhiozzo,  resistente
    non  solo  ai  più raffinati espedienti della medicina accademica,  ma
    anche a ogni sorta di rimedi magici che  gli  mandavano  da  tutto  il
    mondo.
    Infine, nel mese di luglio, Pio Dodicesimo si riprese e si recò per le
    sue  vacanze  estive  a Castelgandolfo.  Margarito portò la santa alla
    prima udienza settimanale con la speranza di mostrargliela. Il Papa si
    fece vedere  nel  cortile  interno,  su  un  balcone  così  basso  che
    Margarito  riuscì  a  scorgergli  le  unghie nette e a cogliere il suo
    fiato di lavanda.  Ma non passò fra i turisti che venivano da tutto il
    mondo per vederlo,  come Margarito sperava,  limitandosi a pronunciare
    lo stesso  discorso  in  sei  lingue  e  finendo  con  la  benedizione
    generale.
    Dopo tutta una serie di rinvii, Margarito decise di affrontare le cose
    di persona,  e consegnò alla Segreteria di Stato una lettera scritta a
    mano di quasi sessanta pagine,  che non  ebbe  risposta.  Lui  l'aveva
    previsto,  perché il funzionario che l'aveva ritirata con le formalità
    di rigore si era appena degnato di  dare  un'occhiata  ufficiale  alla
    bambina  morta,  e gli impiegati che passavano lì vicino la guardavano
    senza alcun interesse.  Uno di loro  gli  raccontò  che  l'anno  prima
    avevano  ricevuto  più  di  ottocento  lettere  che  sollecitavano  la
    santificazione di  cadaveri  intatti  in  diversi  luoghi  del  mondo.
    Margarito  chiese  infine  che  si constatasse la mancanza di peso del
    corpo. Il funzionario la constatò, ma rifiutò di ammetterla.
    «Dev'essere un caso di suggestione collettiva» disse.
    Nelle scarse ore libere e  nelle  aride  domeniche  estive,  Margarito
    rimaneva  nella  sua  stanza,  accanendosi  nella lettura di qualsiasi
    libro gli sembrasse interessante per la sua causa.  Alla fine di  ogni
    mese,  di  sua  iniziativa,  scriveva  in  un  quaderno da scolaro una
    relazione minuziosa delle sue spese con calligrafia ricercata da abile
    amanuense,  per rendere conti esatti e tempestivi ai contribuenti  del
    suo  villaggio.  Prima  che  l'anno fosse finito conosceva i dedali di
    Roma come se vi fosse nato,  parlava un italiano facile  e  scarso  di
    parole  come  il suo spagnolo andino,  e ne sapeva quant'altri mai sui
    processi di canonizzazione.  Ma trascorse ancora molto tempo prima che
    si  cambiasse  il  vestito  funebre,  e  il panciotto e il cappello da
    magistrato che nella Roma dell'epoca erano  tipici  di  certe  società
    segrete dagli obiettivi inconfessabili.  Se ne usciva molto presto con
    la custodia della santa,  e talvolta tornava a notte tarda,  esausto e
    triste,  ma  sempre  con  un  residuo  di luce che gli infondeva nuovo
    vigore per il giorno successivo.
    «I santi vivono nel loro tempo» diceva.
    Io mi trovavo a Roma per la  prima  volta,  a  frequentare  il  Centro
    Sperimentale   di   Cinematografia,   e  vissi  il  suo  calvario  con
    un'intensità indimenticabile. La pensione dove abitavamo era in realtà
    un appartamento moderno a  pochi  passi  da  Villa  Borghese,  la  cui
    proprietaria  occupava  due  camere  e ne affittava quattro a studenti
    stranieri.  La chiamavamo Maria Bella,  ed era attraente ed esuberante
    nella  pienezza del suo autunno,  e sempre fedele alla sacra norma per
    cui ognuno è re assoluto dentro la sua stanza. In realtà, a reggere il
    peso della vita quotidiana era la sorella maggiore, zia Antonietta, un
    angelo senza ali che lavorava a ore per lei  durante  la  giornata,  e
    girava  dappertutto  con  secchio e scopa di saggina lustrando più del
    possibile i marmi del pavimento.  Fu lei a insegnarci a  mangiare  gli
    uccelletti  canterini  che  cacciava  Bartolino,  suo marito,  per una
    brutta abitudine che gli era  rimasta  dalla  guerra,  e  fu  lei  che
    avrebbe  finito  per portarsi Margarito a vivere a casa sua quando non
    gli fu più possibile permettersi i prezzi di Maria Bella.
    Nulla di meno adatto al modo di essere di Margarito  che  quella  casa
    senza  legge.  Ogni  ora  ci  riserbava una novità,  persino all'alba,
    quando ci svegliava il ruggito spaventoso del leone dello zoo di Villa
    Borghese. Il tenore Ribero Silva si era guadagnato il privilegio che i
    romani non se la prendessero per le sue  prove  mattutine.  Si  alzava
    alle  sei,  faceva  il  suo  bagno  medicinale  di  acqua  gelata e si
    aggiustava la barba e le sopracciglia da Mefistofele,  e  solo  quando
    era  ormai  pronto  con la vestaglia a quadri scozzesi,  la sciarpa di
    seta cinese e la sua acqua di colonia personale,  si abbandonava corpo
    e  anima agli esercizi di canto.  Spalancava la finestra della camera,
    anche con le stelle dell'inverno, e cominciava a scaldarsi la voce con
    fraseggi progressivi di grandi arie d'amore,  finché non si lanciava a
    cantarle  a  piena  voce.  L'aspettativa  quotidiana  era  che  quando
    prorompeva nel do di petto gli rispondeva il leone di  Villa  Borghese
    con un ruggito da terremoto.
    «Sei  San  Marco  reincarnato,  figlio  mio»  esclamava zia Antonietta
    davvero stupita. «Solo lui riusciva a parlare con i leoni.»
    Una mattina non fu il leone a dargli la replica.  Il tenore iniziò  il
    duetto  d'amore  dell'"Otello": "Già nella notte densa s'estingue ogni
    clamor". D'improvviso, dal fondo del cortile, ci arrivò la risposta in
    una bella voce da soprano. Il tenore proseguì, e le due voci cantarono
    il pezzo completo,  a diletto del vicinato che aprì  le  finestre  per
    santificare le sue case col torrente di quell'amore irresistibile.  Il
    tenore fu sul punto di svenire  quando  venne  a  sapere  che  la  sua
    Desdemona invisibile era nientemeno che la grande Maria Caniglia.
    Ho  l'impressione  che  fu quell'episodio a fornire un motivo valido a
    Margarito Duarte per inserirsi nella vita della  casa.  A  partire  da
    allora  sedette insieme a tutti gli altri alla tavola comune e non più
    in cucina, come all'inizio,  dove zia Antonietta lo viziava quasi ogni
    giorno  col suo squisito stufato di uccelletti canterini.  Maria Bella
    ci leggeva dopo i pasti i quotidiani del  giorno  per  abituarci  alla
    fonetica  italiana,  e  completava le notizie con un'arbitrarietà e un
    garbo che ci rallegravano la vita.  Uno di  quei  giorni  raccontò,  a
    proposito  della  santa,  che  nella  città di Palermo c'era un enorme
    museo con i cadaveri incorrotti di uomini, donne e bambini,  e persino
    vari vescovi,  dissotterrati da uno stesso cimitero dei cappuccini. La
    notizia inquietò talmente Margarito,  che non ebbe un istante di  pace
    finché non ci recammo a Palermo.  Ma gli bastò un'occhiata veloce alle
    cupe gallerie di mummie senza gloria per farsene un'idea e consolarsi.
    «Non sono lo stesso caso» disse.  «Questi  si  nota  subito  che  sono
    morti.»
    Dopo  il  pranzo  Roma  soccombeva  al  sopore  di agosto.  Il sole di
    mezzogiorno rimaneva immobile al centro  del  cielo,  e  nel  silenzio
    delle due del pomeriggio si udiva solo il rumore dell'acqua,  che è la
    voce naturale di Roma.  Ma verso le  sette  di  sera  le  finestre  si
    aprivano  d'improvviso  per  attrarre  l'aria  fresca che cominciava a
    muoversi,  e  una  folla  giubilante  usciva  in  strada  senza  altro
    proposito   che   quello  di  vivere,   in  mezzo  agli  scoppi  delle
    motociclette,  alle grida dei venditori  di  anguria  e  alle  canzoni
    d'amore tra i fiori delle terrazze.
    Il tenore e io non facevamo la siesta.  Andavamo con la sua vespa, lui
    che guidava e io  dietro,  e  portavamo  gelati  e  cioccolatini  alle
    puttanelle  estive che sfarfalleggiavano sotto gli allori centenari di
    Villa Borghese, in cerca di turisti desti in pieno sole.  Erano belle,
    povere e affettuose, come la maggioranza delle italiane di quei tempi,
    vestite  di  organza azzurra,  di popeline rosa,  di lino verde,  e si
    proteggevano dal sole con gli ombrellini tarmati  dalle  piogge  della
    guerra  recente.   Era  un  piacere  umano  stare  con  loro,   perché
    infrangevano le leggi del mestiere,  e  si  concedevano  il  lusso  di
    perdere un buon cliente per venire con noi a prendere un caffè e a far
    due chiacchiere al bar dell'angolo,  o a passeggiare sulle carrozzelle
    a nolo lungo  i  sentieri  del  parco,  o  a  rattristarci  con  i  re
    detronizzati  e  le loro amanti tragiche che all'imbrunire cavalcavano
    nel galoppatoio.  Più di una volta facevamo da interpreti con  qualche
    americano smarrito.
    Non fu a causa di loro che portammo Margarito Duarte a Villa Borghese,
    ma  affinché  conoscesse  il  leone.  Viveva in libertà su un isolotto
    desertico circondato da un fossato profondo,  e  non  appena  ci  ebbe
    scorti  sull'altra  sponda  prese  a  ruggire con un'irrequietezza che
    meravigliò il guardiano. I visitatori del parco accorsero stupiti.  Il
    tenore cercò di farsi riconoscere col suo do di petto mattutino, ma il
    leone   non  gli  badò.   Sembrava  ruggire  contro  tutti  noi  senza
    distinzione,  ma il custode si accorse subito  che  ruggiva  solo  per
    Margarito.  Così  fu:  se  lui  si muoveva il leone si muoveva,  e non
    appena si nascondeva smetteva di ruggire. Il custode, che era laureato
    in lettere classiche all'università di Siena, pensò che Margarito quel
    giorno fosse stato con altri leoni che gli avevano attaccato  il  loro
    odore.  Tranne questa spiegazione,  che era vana,  non gliene venne in
    mente un'altra.
    «Comunque» disse, «non sono ruggiti di guerra ma di compassione.»
    Tuttavia, a impressionare il tenore Ribero Silva non fu quell'episodio
    sovrannaturale, bensì la commozione di Margarito quando si fermarono a
    chiacchierare con le ragazze del parco.  Ne parlò a tavola,  e  taluni
    per  malizia,  talaltri  per  comprensione,  fummo tutti d'accordo che
    sarebbe stato un bel  gesto  aiutare  Margarito  a  risolvere  la  sua
    solitudine.  Commossa dalla debolezza dei nostri cuori, Maria Bella si
    strinse sul petto da grande madre biblica le mani ricoperte di  anelli
    di bigiotteria.
    «Io  lo  farei  per  carità»  disse,  «non  fosse  che non ci sono mai
    riuscita con gli uomini che portano il panciotto.»
    Fu  così  che  il  tenore  passò  per  Villa  Borghese  alle  due  del
    pomeriggio,  e  si  caricò  dietro  la sua vespa la farfallina che gli
    sembrò più propizia per fornire un'ora di buona compagnia a  Margarito
    Duarte.  La  fece  spogliare  nella  sua  camera,  la  lavò con sapone
    profumato,  l'asciugò,  la  cosparse  con  la  sua  acqua  di  colonia
    personale,  e  le  incipriò  tutto il corpo col suo talco canforato da
    dopobarba.  Infine le pagò il tempo che avevano già  fatto  passare  e
    un'altra ora, e le indicò per filo e per segno quel che doveva fare.
    La bella attraversò nuda e in punta di piedi la casa in penombra, come
    un sogno della siesta,  e bussò con due colpetti teneri alla camera in
    fondo. Margarito Duarte, scalzo e senza camicia, aprì la porta.
    «Buonasera, giovanotto» gli disse lei,  con voce e modi da collegiale.
    «Mi manda il tenore.»
    Margarito incassò il colpo con grande dignità.  Aprì bene la porta per
    farla entrare,  e lei si distese sul letto mentre lui si  infilava  in
    gran  fretta  la  camicia  e  le  scarpe  per darle ascolto col dovuto
    rispetto.  Poi le si sedette accanto  su  una  seggiola,  e  avviò  la
    conversazione.  Stupita,  la  ragazza  gli  disse  che si affrettasse,
    perché disponevano solo di un'ora. Lui non le badò.
    La ragazza disse poi che sarebbe comunque rimasta per tutto  il  tempo
    che lui avesse voluto senza fargli pagare un soldo,  perché non poteva
    esserci al mondo un uomo capace di comportarsi meglio. Senza saper che
    fare mentre passava il tempo,  perquisì la stanza con  lo  sguardo,  e
    scoprì  la  custodia  di  legno  sopra  il  camino.  Domandò se era un
    sassofono. Margarito non le rispose, ma socchiuse la persiana affinché
    entrasse un po' di luce,  portò la custodia sul  letto  e  sollevò  il
    coperchio.
    La ragazza cercò di dire qualcosa, ma le cascò giù la mascella. O come
    poi ci disse: «Mi si gelò il culo».  Scappò via spaventata, ma sbagliò
    direzione in corridoio,  e si scontrò con  zia  Antonietta  che  stava
    venendo a cambiare una lampadina nella mia stanza. Fu tale lo spavento
    di  entrambe,  che  la  ragazza non osò uscire dalla camera del tenore
    sino a notte fatta.
    Zia Antonietta non seppe mai cos'era successo.  Entrò nella mia stanza
    così  impaurita,  che  non  riusciva  ad  avvitare la lampadina per il
    tremito delle mani. Le domandai cosa succedeva. «E' che in questa casa
    si prendono certi  spaventi»  mi  disse.  «E  adesso  anche  in  pieno
    giorno.» Mi raccontò con grande convinzione che, durante la guerra, un
    ufficiale  tedesco  aveva  sgozzato  la  sua  amante  nella stanza che
    occupava il tenore. Spesso,  mentre faceva i mestieri,  zia Antonietta
    aveva  visto  l'apparizione della bella assassinata che seguiva i suoi
    passi lungo i corridoi.
    «L'ho appena vista che camminava tutta nuda per il  corridoio»  disse.
    «Era precisa identica.»
    La  città  riprese  le  sue abitudini in autunno.  Le terrazze fiorite
    dell'estate si chiusero ai primi venti, e il tenore e io tornammo alla
    vecchia trattoria di Trastevere dove cenavamo insieme agli  alunni  di
    canto del conte Carlo Calcagni,  e a taluni miei compagni della scuola
    di cinema.  Fra questi ultimi,  il più assiduo  era  Lakis,  un  greco
    intelligente  e  simpatico,  il  cui  unico  difetto  erano i discorsi
    soporiferi sull'ingiustizia sociale. Per fortuna, i tenori e i soprani
    riuscivano quasi sempre a farlo tacere con  pezzi  d'opera  cantati  a
    piena  voce,  che  tuttavia  non  disturbavano nessuno neanche dopo la
    mezzanotte. Al contrario,  certi nottambuli di passaggio si univano al
    coro, e nel vicinato si aprivano finestre per applaudire.
    Una notte, mentre cantavamo, Margarito entrò in punta di piedi per non
    interromperci.  Recava  con sé la custodia di pino che non aveva avuto
    il tempo di lasciare alla pensione dopo  aver  mostrato  la  santa  al
    parroco di San Giovanni in Laterano,  la cui influenza presso la Santa
    Congregazione dei Riti era di dominio pubblico.  Riuscii a vedere  con
    la  coda  dell'occhio che la riponeva sotto un tavolo appartato,  e si
    sedette mentre finivamo di cantare.  Come  sempre  accadeva  verso  la
    mezzanotte,  riunimmo  diversi tavoli mentre la trattoria cominciava a
    vuotarsi,  e restammo insieme noi che cantavamo,  che  discutevamo  di
    cinema,  e gli amici di tutti.  E fra questi, Margarito Duarte, che lì
    era già conosciuto come il  colombiano  silenzioso  e  triste  di  cui
    nessuno sapeva nulla.  Lakis,  incuriosito,  gli domandò se suonava il
    violoncello.   Io  ebbi  un  sussulto  dinanzi  a  quanto  mi   sembrò
    un'indiscrezione  cui  era difficile sottrarsi.  Il tenore,  a disagio
    come me,  non riuscì a rimediare la situazione.  Margarito fu  l'unico
    che prese la domanda con tutta naturalezza.
    «Non è un violoncello» disse. «E' la santa.»
    Posò  la  cassetta  sopra  il  tavolo,  aprì il lucchetto e sollevò il
    coperchio.  Una ventata di stupore percorse il ristorante.  Gli  altri
    clienti,  i  camerieri,  e  infine  quelli  della  cucina  con  i loro
    grembiuli insanguinati,  si  assieparono  attoniti  a  contemplare  il
    prodigio.  Taluni si fecero il segno della croce.  Una delle cuoche si
    inginocchiò a mani giunte, in preda a un tremor di febbre,  e pregò in
    silenzio.
    Tuttavia,  passata la commozione iniziale, ci addentrammo fra grida in
    una discussione sull'insufficienza  della  santità  ai  nostri  tempi.
    Lakis,  naturalmente,  fu  il  più radicale.  L'unico punto che infine
    rimase chiaro fu la sua idea di girare un film critico sul tema  della
    santa.
    «Sono  sicuro» disse «che il vecchio Cesare non si lascerebbe sfuggire
    questo tema.»
    Si riferiva a Cesare  Zavattini,  il  nostro  maestro  di  soggetto  e
    sceneggiatura,  uno  dei  grandi della storia del cinema e l'unico che
    intrattenesse con noi un rapporto personale ai margini  della  scuola.
    Cercava  di insegnarci non solo il mestiere,  ma anche un modo diverso
    di vedere la vita. Era una macchina per pensare soggetti. Gli venivano
    a fiotti,  quasi contro la sua volontà.  E con tale fretta,  che aveva
    sempre  bisogno  dell'aiuto  di  qualcuno  per pensarli ad alta voce e
    acchiapparli al volo.  Solo che quando li aveva portati a  termine  si
    scoraggiava.  «Peccato  che  si  debba  farne un film» diceva.  Perché
    pensava  che  sullo  schermo  avrebbe  perso  molto  della  sua  magia
    originale.  Conservava  le  idee  su  schede  ordinate per argomenti e
    attaccate  con  puntine  alle  pareti,  e  ne  aveva  così  tante  che
    occupavano una stanza di casa sua.
    Il sabato successivo andammo a trovarlo con Margarito Duarte. Era così
    goloso della vita,  che lo trovammo sulla soglia della sua casa in via
    Angela Merici,  ardente d'ansia per l'idea che gli avevamo  annunciato
    al telefono.  Non ci salutò neppure con la consueta cortesia, ma guidò
    Margarito fino a un  tavolo  già  preparato,  e  lui  stesso  aprì  la
    custodia.  Allora  accadde  quel  che  meno  immaginavamo.  Invece  di
    impazzire, com'era prevedibile, ebbe una sorta di paralisi mentale.
    «Ammazza!» mormorò spaventato.
    Guardò la santa in silenzio per due o tre minuti,  chiuse la  custodia
    lui stesso, e senza dire nulla condusse Margarito verso la porta, come
    un  bambino che facesse i primi passi.  Lo congedò con qualche leggera
    pacca sulle spalle. «Grazie, figliolo, mille grazie» gli disse. «E che
    Dio ti accompagni nella tua lotta.» Quando ebbe  chiuso  la  porta  si
    volse verso di noi, e ci comunicò il suo verdetto.
    «Non serve per il cinema» disse. «Nessuno ci crederebbe.»
    Quella  lezione stupefacente ci accompagnò sul tram al ritorno.  Se lo
    diceva lui,  non era proprio  il  caso  di  pensarci:  la  storia  non
    serviva.  Tuttavia,  Maria  Bella ci accolse col messaggio urgente che
    Zavattini ci aspettava quella stessa sera, ma senza Margarito.
    Lo trovammo in uno dei suoi momenti stellari.  Lakis aveva portato due
    o  tre  condiscepoli,  ma  quando aprì la porta lui non sembrò neppure
    vederli.
    «Ci siamo» gridò.  «Il film sarà una bomba se Margarito fa il miracolo
    di resuscitare la bambina.»
    «Nel film o nella vita?» gli domandai.
    Lui represse la contrarietà.  «Non essere stupido» mi disse. Ma subito
    gli vedemmo negli occhi lo scintillio  di  un'idea  irresistibile.  «A
    meno  che  sia  capace  di  resuscitarla  nella  vita reale» disse,  e
    rifletté seriamente:
    «Dovrebbe provarci.»
    Fu solo una  tentazione  momentanea,  prima  di  riprendere  il  filo.
    Cominciò a girare per la casa,  come un pazzo felice, gesticolando con
    le  mani  e  raccontando  il  film  ad  alta  voce.   Lo   ascoltavamo
    esterrefatti,  con  l'impressione  di  star  vedendo  le immagini come
    uccelli  fosforescenti  che  gli  sfuggissero  a  frotte  e  volassero
    impazziti per tutta la casa.
    «Una  sera»  disse,  «dopo  la  morte  di  una ventina di papi che non
    l'hanno ricevuto, Margarito entra in casa sua, stanco e vecchio,  apre
    la cassa,  accarezza il viso della piccola morta,  e le dice con tutta
    la tenerezza del mondo: "Per amore di tuo  padre,  piccola:  alzati  e
    cammina".»
    Ci guardò tutti, e concluse con un gesto trionfale:
    «E la bambina si alza!»
    Si  aspettava  qualcosa  da  noi.  Ma eravamo così perplessi,  che non
    sapevamo cosa dire. Tranne Lakis, il greco,  che alzò un dito,  come a
    scuola, per chiedere la parola.
    «Davvero non posso crederci» disse, e dinanzi alla nostra sorpresa, si
    rivolse direttamente a Zavattini: «Mi perdoni,  maestro,  ma non posso
    crederci».
    Allora fu Zavattini a rimanere attonito.
    «E perché no?»
    «Che ne so?» disse Lakis, dispiaciuto. «E' che non può essere.»
    «Ammazza!» gridò allora il maestro,  con uno strepito che  si  dovette
    udire  in  tutto  il  quartiere.  «E'  quel  che più mi disturba degli
    stalinisti: che non credono nella realtà.»
    Nei quindici anni successivi,  come lui stesso mi raccontò,  Margarito
    portò  la  santa a Castelgandolfo nel tentativo di mostrarla.  Durante
    un'udienza di circa duecento pellegrini dell'America latina  riuscì  a
    raccontare  la  sua  storia,  fra  spintoni  e  gomitate,  al benevolo
    Giovanni Ventitreesimo.  Ma non gli fu possibile mostrargli la bambina
    perché aveva dovuto lasciarla all'entrata, insieme agli zaini di altri
    pellegrini,  nell'eventualità di un attentato.  Il Papa lo ascoltò con
    tutta l'attenzione che gli fu possibile tra  la  folla,  e  gli  diede
    sulla guancia un buffetto di incoraggiamento.
    «Bravo, figlio mio» gli disse. «Dio premierà la tua perseveranza.»
    Tuttavia,  il  momento in cui davvero si sentì sul punto di realizzare
    il suo sogno fu durante il regno fugace del sorridente Albino Luciani.
    Un suo parente, colpito dalla storia di Margarito,  gli aveva promesso
    di intervenire.  Nessuno gli diede retta.  Ma due giorni dopo,  mentre
    pranzavano,  qualcuno chiamò alla pensione con un messaggio  veloce  e
    semplice  per Margarito: non doveva muoversi da Roma,  perché prima di
    giovedì sarebbe stato chiamato dal Vaticano per un'udienza privata.
    Non si seppe mai se era stato uno scherzo. Margarito credeva di no,  e
    rimase  all'erta.  Non  uscì  di  casa.  Se  doveva andare in bagno lo
    annunciava ad alta voce: «Vado in bagno». Maria Bella, sempre graziosa
    nei primi albori della vecchiaia,  se ne usciva nella  sua  risata  di
    donna libera.
    «Lo sappiamo, Margarito» gridava, «casomai ti chiamasse il Papa.»
    Il   martedì   successivo,   due   giorni  prima  della  comunicazione
    annunciata, Margarito crollò davanti al titolo sul giornale che fecero
    scivolare sotto la porta: "Morto il Papa".  Per un istante lo sorresse
    l'illusione  che  fosse  un  giornale  vecchio consegnato per sbaglio,
    perché non era facile credere che morisse un papa al mese. Ma così fu:
    il sorridente Albino Luciani, eletto trentatré giorni prima, era stato
    trovato morto nel suo letto.
    Tornai a Roma  ventidue  anni  dopo  che  avevo  conosciuto  Margarito
    Duarte, e forse non avrei pensato a lui se non l'avessi incontrato per
    caso.  Io  ero troppo oppresso dal trascorrere del tempo per pensare a
    chicchessia.  Cadeva senza tregua una pioviggine  stupida  come  brodo
    tiepido, la luce di diamante dei vecchi tempi era diventata torbida, e
    i luoghi che erano stati miei e nutrivano le mie nostalgie erano altri
    ed  estranei.  La  casa  dov'era la pensione era sempre la stessa,  ma
    nessuno seppe ragguagliarmi su Maria Bella.  Nessuno rispondeva ai sei
    numeri  telefonici  che  il  tenore  Ribero  Silva  mi  aveva  mandato
    attraverso gli anni.  Durante un pranzo con la nuova gente  di  cinema
    evocai  il  ricordo del mio maestro,  e un silenzio improvviso aleggiò
    sulla tavola per un istante, finché qualcuno osò dire:
    «Zavattini? Mai sentito.»
    Così era: nessuno aveva udito parlare di  lui.  Gli  alberi  di  Villa
    Borghese  erano  arruffati  sotto  la  pioggia,  il  galoppatoio delle
    principesse tristi era stato divorato da una malerba senza fiori, e le
    belle  di  un  tempo  erano  state  sostituite  da  atleti   androgini
    travestiti da ganimedi. L'unico sopravvissuto di una fauna estinta era
    il vecchio leone,  scabbioso e rauco,  nella sua isola di acque vizze.
    Nessuno cantava né moriva  d'amore  nelle  trattorie  plastificate  di
    piazza  di  Spagna.  La Roma delle nostre nostalgie era ormai un'altra
    Roma antica dentro l'antica Roma dei Cesari.  D'improvviso,  una  voce
    che poteva venire dall'aldilà mi bloccò in un vicolo di Trastevere:
    «Salve, poeta.»
    Era  lui,  vecchio e stanco.  Erano morti cinque papi,  la Roma eterna
    mostrava i primi sintomi  della  decrepitezza,  e  lui  continuava  ad
    aspettare. «Ho aspettato tanto che non può più mancare molto» mi disse
    congedandosi, dopo quasi quattro ore di rievocazioni. «Può essere cosa
    di mesi.» Se ne andò strascicando i piedi in mezzo alla strada,  con i
    suoi stivali da guerra e il suo berretto  stinto  da  vecchio  romano,
    senza  badare  alle pozzanghere di pioggia in cui la luce cominciava a
    marcire.  Allora non ebbi più dubbi,  se mai ne avevo  avuti,  che  il
    santo era lui.  Senza rendersene conto, attraverso il corpo incorrotto
    di sua figlia,  erano ormai ventidue anni che viveva lottando  per  la
    causa legittima della propria canonizzazione.

    agosto 1981.














    L'aereo della bella addormentata.

    Era bella,  elastica, con una pelle morbida color del pane e gli occhi
    di mandorle verdi,  e aveva i capelli lisci e neri e lunghi fin  sulla
    schiena,  e un'aura di antichità che poteva essere dell'Indonesia come
    delle Ande.  Era vestita  con  un  gusto  sottile:  giacca  di  lince,
    camicetta  di  seta  naturale  a fiori molto tenui,  pantaloni di lino
    grezzo,  e scarpe lineari color delle buganvillee.  "Questa è la donna
    più  bella  che  abbia  mai  visto  in vita mia" pensai quando la vidi
    passare col suo silenzioso incedere da leonessa,  mentre io facevo  la
    coda  per  imbarcarmi sull'aereo per New York all'aeroporto Charles de
    Gaulle di Parigi.  Fu un'apparizione sovrannaturale che esistette solo
    un istante e scomparve tra la folla dell'atrio.
    Erano le nove del mattino. Stava nevicando fin dalla notte prima, e il
    traffico era più fitto del solito per le vie della città,  e più lento
    ancora sull'autostrada,  e c'erano  camion  da  carico  allineati  sul
    margine,  e automobili fumanti nella neve.  Nell'atrio dell'aeroporto,
    invece, la vita era sempre in primavera.
    Io facevo la fila per il check-in  dietro  una  vecchia  olandese  che
    rimase  quasi  un'ora  a  discutere sul peso delle sue undici valigie.
    Cominciavo ad annoiarmi quando vidi l'apparizione  istantanea  che  mi
    aveva  lasciato senza respiro,  sicché non seppi come finì la disputa,
    finché l'impiegata non mi riportò sulla terra con un rimprovero per la
    mia distrazione.  A titolo di scusa le domandai se credeva negli amori
    a  prima  vista.  «Certamente» mi disse.  «Quelli impossibili sono gli
    altri.» Se ne rimase con lo sguardo fisso sullo schermo del  computer,
    e mi domandò che posto preferivo: per fumatori o per non fumatori.
    «E'  lo stesso» le dissi con intenzione,  «purché non sia accanto alle
    undici valigie.»
    Lei mi ringraziò con un  sorriso  commerciale  ma  senza  scostare  lo
    sguardo dallo schermo fosforescente.
    «Scelga un numero» mi disse: «tre, quattro o sette».
    «Quattro.»
    Il suo sorriso ebbe allora un bagliore trionfale.
    «In quindici anni che lavoro qui» disse «è il primo a non scegliere il
    sette.»
    Segnò  sulla carta di imbarco il numero del posto e me la consegnò col
    resto dei miei documenti,  guardandomi per la prima  volta  con  certi
    occhi  color  uva  che  mi servirono da consolazione finché non avessi
    rivisto la bella.  Solo allora mi avvertì che  l'aeroporto  era  stato
    appena chiuso e che tutti i voli erano rinviati.
    «Fin quando?»
    «Lo  sa  Dio»  disse  col  suo  sorriso.  «Questa  mattina la radio ha
    annunciato che sarà la nevicata più intensa di tutto l'anno.»
    Si sbagliò: fu la più intensa di tutto il secolo.  Ma  nella  sala  di
    prima  classe la primavera era così reale che c'erano rose fresche nei
    vasi e persino la musica in scatola sembrava sublime e  sedativa  come
    asserivano  i  suoi  creatori.  D'improvviso  mi  venne da pensare che
    quello era un rifugio adatto alla bella, e la cercai nelle altre sale,
    rabbrividendo per la mia audacia.  Ma perlopiù erano uomini della vita
    reale  che  leggevano giornali in inglese mentre le mogli pensavano ad
    altri,  contemplando gli aerei morti nella neve attraverso le  vetrate
    panoramiche,  contemplando  le  fabbriche  glaciali,  i vasti vivai di
    Roissy devastati dai leoni.  Dopo il mezzogiorno  non  c'era  più  uno
    spazio  disponibile,  e il caldo era diventato così insopportabile che
    scappai via per respirare.
    Fuori trovai uno spettacolo incredibile.  Gente di  ogni  risma  aveva
    invaso le sale d'attesa,  ed era accampata nei corridoi soffocanti,  e
    anche nelle scale,  coricata a terra con gli animali e i bambini,  e i
    bagagli.  Anche  le comunicazioni con la città erano interrotte,  e il
    palazzo di plastica trasparente sembrava un'immensa  capsula  spaziale
    arenata  nella  bufera.  Non riuscii a evitare l'idea per cui anche la
    bella doveva essere in qualche posto in mezzo a quelle orde  mansuete,
    e tale fantasia mi infuse nuovo coraggio per aspettare.
    All'ora   di  pranzo  avevamo  assunto  la  nostra  consapevolezza  di
    naufraghi.   Le  code  si  fecero  interminabili  davanti   ai   sette
    ristoranti,  alle tavole calde, ai bar stracolmi, e in meno di tre ore
    dovettero chiuderli perché non c'era più nulla da mangiare né da bere.
    I bambini,  che per un momento  sembravano  essere  tutti  quelli  del
    mondo, si misero a piangere al contempo, e dalla folla prese a levarsi
    un  odor  di  gregge.  Era il momento degli istinti.  L'unica cosa che
    riuscii a mangiare  in  mezzo  al  ruffaraffa  furono  le  ultime  due
    coppette di gelato alla crema in un negozio per bambini. Li inghiottii
    lentamente  al  banco,  mentre i camerieri sistemavano le seggiole sui
    tavoli a mano a mano che si liberavano,  e guardandomi nello  specchio
    in  fondo,  con  l'ultima coppetta di cartone e l'ultimo cucchiaino di
    cartone, e pensando alla bella.
    Il volo per New York,  previsto per le undici del mattino,  partì alle
    otto  di  sera.  Quando  riuscii infine a imbarcarmi,  i passeggeri di
    prima classe erano già al loro posto,  e una hostess mi guidò fino  al
    mio.  Rimasi senza fiato. Nel sedile accanto, vicino al finestrino, la
    bella  stava  prendendo  possesso  del  suo  spazio  col  dominio  dei
    viaggiatori  esperti.  "Se  un  giorno  dovessi scrivere tutto questo,
    nessuno mi crederebbe",  pensai.  E tentai appena con la lingua legata
    un saluto indeciso che lei non colse.
    Si  installò  come per vivere molti anni,  disponendo ogni cosa al suo
    posto e nel suo ordine,  finché lo spazio rimase ben sistemato come la
    casa  ideale  dove tutto era a portata di mano.  Mentre lo faceva,  lo
    steward ci portò lo  champagne  di  benvenuto.  Presi  una  coppa  per
    offrirla  a  lei,  ma me ne pentii in tempo.  Accettò solo un bicchier
    d'acqua, e chiese allo steward,  dapprima in un francese inaccessibile
    e poi in un inglese solo un po' più sciolto, che non la svegliasse per
    alcun motivo durante il volo.  La sua voce grave e tiepida strascicava
    una tristezza orientale.
    Quando le ebbero portato l'acqua, si aprì sulle ginocchia un cofanetto
    da toilette con gli angoli di rame, come i bauli delle nonne,  e prese
    due  pillole  dorate  da un astuccio in cui ce n'erano altre di colori
    diversi. Faceva ogni cosa in maniera metodica e parsimoniosa,  come se
    non  ci  fosse  nulla  che  non  fosse  previsto per lei fin dalla sua
    nascita.  Infine abbassò la tendina del finestrino,  reclinò il sedile
    al massimo, si avvolse nella coperta fino alla vita senza togliersi le
    scarpe,  si mise una mascherina per dormire,  si sistemò su un fianco,
    girandomi la schiena,  e si addormentò senza una sola pausa,  senza un
    sospiro, senza un minimo cambiamento di posizione, durante le otto ore
    eterne e i dodici minuti in più che durò il volo per New York.
    Fu  un viaggio intenso.  Ho sempre creduto che non ci sia nulla di più
    bello al mondo di  una  donna  attraente,  sicché  mi  fu  impossibile
    sottrarmi  sia  pure  per  un istante alla malia di quella creatura da
    favola che mi dormiva accanto. Lo steward era scomparso subito dopo il
    decollo,  e fu sostituito da  una  hostess  cartesiana  che  cercò  di
    svegliarla  per consegnarle la confezione da toilette e gli auricolari
    per la musica.  Le ripetei l'avvertenza che aveva fatto allo  steward,
    ma  la  hostess  insistette  per  sentirsi  dire da lei che non voleva
    neppure cenare.  Dovette confermarglielo lo steward,  e anche così  mi
    sgridò  perché  la  bella non si era appesa al collo il cartellino con
    l'ordine di non svegliarla.
    Feci una cena solitaria,  dicendomi in silenzio tutto quel  che  avrei
    detto a lei se fosse stata sveglia. Il suo sonno era così stabile, che
    a  un  certo  punto ebbi l'inquietudine che le pillole che aveva preso
    non fossero per dormire ma per morire. Prima di ogni sorso,  alzavo il
    bicchiere e brindavo:
    «Alla tua salute, bella.»
    Finita la cena spensero le luci,  proiettarono il film per nessuno,  e
    noi due rimanemmo soli nella penombra del mondo. La bufera più intensa
    del secolo era passata, la notte dell'Atlantico era immensa e limpida,
    e l'aereo sembrava immobile fra le stelle.  Allora la contemplai palmo
    a  palmo  per  diverse  ore,  e  l'unico  segno  di vita che riuscii a
    cogliere furono le ombre dei sogni che le passavano sulla fronte  come
    le  nuvole  sull'acqua.  Aveva al collo una catenella così sottile che
    era quasi invisibile sulla sua pelle d'oro,  e  le  orecchie  perfette
    senza  fori per gli orecchini,  le unghie rosee di buona salute,  e un
    anello liscio alla mano sinistra.  Siccome non sembrava avere  più  di
    vent'anni, mi consolai all'idea che non fosse un anello di nozze ma di
    un fidanzamento effimero.  "Saper che dormi tu,  quieta, sicura, alveo
    fedele  di  abbandono,  linea  pura,  così  vicina  alle  mie  braccia
    strettamente  avvinte",  pensai,  ripetendo  sulla  cresta di spume di
    champagne il sonetto magistrale di  Gerardo  Diego.  Poi  reclinai  il
    sedile  all'altezza del suo,  e rimanemmo distesi più vicini che in un
    letto matrimoniale.  Il ritmo del respiro era identico a quello  della
    voce, e la pelle esalava un alito tenue che poteva essere solo l'odore
    della  sua bellezza.  Mi sembrava incredibile: la primavera precedente
    avevo letto un bel romanzo di Yasunari Kawabata sui vecchi borghesi di
    Kyoto che pagavano somme enormi per passare la notte  contemplando  le
    ragazze  più  belle  della  città,  nude  e narcotizzate,  mentre loro
    agonizzavano d'amore nello stesso letto.  Non potevano svegliarle,  né
    toccarle,  e  neppure  ci  provavano,  perché  l'essenza  del  piacere
    consisteva nel guardarle dormire.  Quella notte,  vegliando  il  sonno
    della  bella,  non solo capii quella raffinatezza senile,  ma la vissi
    pienamente.
    «Chi ci avrebbe creduto» mi dissi, con l'amor proprio esacerbato dallo
    champagne. «Io, che faccio il vecchio giapponese a questa altezza.»
    Credo di avere dormito diverse  ore,  sopraffatto  dallo  champagne  e
    dalle  vampate mute del film,  e mi svegliai con la testa frastornata.
    Andai alla toilette.  Due posti dietro il mio giaceva la vecchia delle
    undici  valigie  malamente  abbandonata sul sedile.  Sembrava un morto
    dimenticato sul campo di battaglia.  A terra,  in mezzo al  corridoio,
    c'erano  i  suoi occhiali per leggere col filo di perline colorate,  e
    per un istante godetti della gioia meschina di non raccoglierli.
    Dopo essermi ripreso dagli eccessi dello champagne mi  sorpresi  nello
    specchio,  indecoroso e brutto, e mi stupii che fossero così terribili
    gli scempi dell'amore.  D'improvviso,  l'aereo cascò giù a  picco,  si
    raddrizzò  alla  meglio,  e continuò a volare al galoppo.  L'ordine di
    tornare al proprio posto si accese.  Uscii di fretta,  con l'illusione
    che  le  turbolenze  di  Dio  svegliassero  la  bella,  e  che dovesse
    rifugiarsi fra le mie braccia in preda al  terrore.  Nell'urgenza  per
    poco  non  calpestai  gli  occhiali  dell'olandese,   e  me  ne  sarei
    rallegrato. Ma tornai sui miei passi,  li raccolsi,  e glieli posai in
    grembo, d'improvviso riconoscente che non avesse scelto prima di me il
    posto numero quattro.
    Il   sonno   della  bella  era  invincibile.   Quando  l'aereo  si  fu
    stabilizzato,  dovetti resistere alla tentazione di scuoterla  con  un
    pretesto qualsiasi, perché l'unica cosa che desideravo in quell'ultima
    ora  di  volo  era  vederla  sveglia,  sia  pure infuriata,  per poter
    recuperare la mia libertà,  e forse la mia giovinezza.  Ma non ne  fui
    capace.  «Cazzo» mi dissi,  con grande spregio.  «Perché non sono nato
    nel Toro!» Si svegliò senza aiuto nel momento in  cui  si  accesero  i
    segnali  dell'atterraggio,  ed  era  bella  e  riposata come se avesse
    dormito in un roseto.  Solo allora mi accorsi che i  vicini  di  posto
    sugli aerei,  al pari dei vecchi coniugi,  non si dicono buongiorno al
    risveglio.  Neppure lei.  Si  tolse  la  mascherina,  aprì  gli  occhi
    radiosi,  raddrizzò il sedile,  scostò la coperta, si scosse i capelli
    che si pettinavano da soli col loro peso, si rimise il cofanetto sulle
    ginocchia,  e si  fece  un  trucco  rapido  e  superfluo,  che  le  fu
    sufficiente  per non guardarmi finché la porta non si aprì.  Allora si
    infilò  la  giacca  di  lince,  mi  passò  quasi  addosso  chiedendomi
    convenzionalmente  scusa in uno spagnolo puro delle Americhe,  e se ne
    ando senza neanche salutare,  senza  nemmeno  ringraziarmi  per  tutto
    quello che avevo fatto per la nostra notte felice, e scomparve fino al
    sole di oggi nell'amazzonia di New York.

    giugno 1982.







    Mi offro per sognare.

    Alle  nove  del  mattino,  mentre  facevamo  colazione  sulla terrazza
    dell'Habana Riviera,  un tremendo colpo di mare in pieno sole  sollevò
    in  aria  diverse automobili che passavano lungo il viale sul molo,  o
    che erano parcheggiate  sul  marciapiede,  e  una  rimase  schiacciata
    contro  un  lato  dell'albergo.  Fu come un'esplosione di dinamite che
    seminò il panico nei venti piani dell'edificio e ridusse in polvere la
    vetrata dell'atrio.  I numerosi turisti che si  trovavano  nella  sala
    d'attesa furono lanciati in aria insieme ai mobili,  e taluni rimasero
    feriti dalla grandinata di  vetri.  Fu  di  certo  un  colpo  di  mare
    colossale,  perché fra il muro del molo e l'albergo c'è un ampio viale
    a due corsie,  ma l'ondata vi balzò sopra ed  ebbe  ancora  abbastanza
    forza per sbriciolare la vetrata.
    Gli allegri volontari cubani,  con l'aiuto dei pompieri,  raccolsero i
    detriti in meno di  sei  ore,  sbarrarono  la  porta  del  mare  e  ne
    abilitarono un'altra, e tutto tornò in ordine. Alla mattina nessuno si
    era  occupato  dell'automobile  schiacciata contro il muro,  perché si
    pensava che fosse una  di  quelle  parcheggiate  sul  marciapiede.  Ma
    quando  la gru l'ebbe tolta dalla nicchia vi scoprirono il cadavere di
    una donna stretta al posto di guida dalla cintura di sicurezza. L'urto
    era stato così brutale che non le era rimasto  un  solo  osso  intero.
    Aveva  il  viso  spappolato,   gli  stivaletti  scuciti  e  gli  abiti
    stracciati,  e un anello d'oro  a  forma  di  serpente  con  occhi  di
    smeraldi.   La   polizia  appurò  che  era  la  governante  dei  nuovi
    ambasciatori del Portogallo.  Infatti,  era giunta con loro  all'Avana
    quindici  giorni  prima,  e  quella  mattina  si  era avviata verso il
    mercato guidando un'automobile nuova.  Il suo nome non mi disse  nulla
    quando  lessi  la  notizia  sui giornali,  ma rimasi intrigato per via
    dell'anello a forma di serpente e con occhi di smeraldi. Non riuscii a
    chiarire, tuttavia, a che dito lo portava.
    Era  un  elemento  decisivo,   perché  temetti  che  fosse  una  donna
    indimenticabile  il cui vero nome non ho mai saputo,  la quale portava
    un anello uguale all'indice destro,  il che era ancora più insolito in
    quel  periodo.  L'avevo  conosciuta trentaquattro anni prima a Vienna,
    mentre mangiavo salsicce con patate lesse e bevevo birra alla spina in
    una taverna per studenti latini. Io ero arrivato da Roma quel mattino,
    e ricordo ancora la mia impressione immediata  per  il  suo  splendido
    petto da soprano,  le sue languide code di volpe al collo del cappotto
    e quell'anello egiziano a forma  di  serpente.  Mi  sembrò  che  fosse
    l'unica  austriaca  al  lungo tavolo di legno,  per via dello spagnolo
    rudimentale  che  parlava  senza   respirare   con   un   accento   da
    paccottiglia. Ma no, era nata in Colombia ed era andata in Austria fra
    le  due  guerre,  giovanissima,  per studiare musica e canto.  In quel
    periodo aveva  una  trentina  d'anni  portati  male,  perché  non  era
    sicuramente mai stata bella e aveva cominciato a invecchiare prima del
    tempo.  Però  era  una  creatura  affascinante.  E anche una delle più
    temibili.
    Vienna  era  ancora  un'antica  città  imperiale,   la  cui  posizione
    geografica  fra  i  due  mondi irriconciliabili lasciati dalla Seconda
    Guerra aveva finito per farne un paradiso del  mercato  nero  e  dello
    spionaggio  mondiale.  Non  avrei  potuto  immaginare  un ambiente più
    consono a quella compatriota in fuga che continuava a  mangiare  nella
    taverna  per  studenti  lì  all'angolo  solo per fedeltà nei confronti
    della sua origine,  perché non le mancavano i mezzi per comprarsela in
    contanti  con  tutti i suoi clienti dentro.  Non disse mai il suo vero
    nome,  perché la conoscemmo sempre con lo scioglilingua tedesco che le
    avevano  inventato  gli  studenti  latini  di  Vienna: Frau Frida.  Me
    l'avevano appena presentata quando commisi l'infelice impertinenza  di
    domandarle  come  aveva  fatto  a  sistemarsi così in quel mondo tanto
    distante e diverso dalle rupi e  dai  venti  del  Quindío,  e  lei  mi
    rispose con una botta:
    «Mi offro per sognare.»
    In realtà,  era il suo unico mestiere. Era stata la terza degli undici
    figli di un prospero commerciante dell'antico Caldas,  e fin da quando
    aveva  imparato  a parlare aveva imposto in casa la buona consuetudine
    di raccontare i sogni a digiuno, che è il momento in cui si mantengono
    più pure le loro virtù premonitrici.  A sette anni aveva  sognato  che
    uno dei suoi fratelli veniva trascinato via da un torrente.  La madre,
    per pura superstizione religiosa,  aveva proibito al bambino quel  che
    più  gli  piaceva,  che era fare il bagno in fondo al dirupo.  Ma Frau
    Frida aveva già un suo sistema di divinazione.
    «Il significato di questo sogno» disse «non è che  annegherà,  ma  che
    non deve mangiare dolci.»
    La sola interpretazione sembrava un'infamia, trattandosi di un bambino
    di  cinque  anni  che  non  poteva  vivere  senza  le sue ghiottonerie
    domenicali.  La madre,  ormai convinta delle virtù  divinatrici  della
    figlia,  fece  rispettare  l'avvertenza  con mano rigida.  Ma alla sua
    prima negligenza il bambino si strozzò con  una  caramella  che  stava
    mangiando di nascosto, e non fu possibile salvarlo.
    Frau  Frida  non  aveva  pensato che quella sua dote potesse essere un
    mestiere, finché la vita non la prese per il collo nei crudeli inverni
    di Vienna.  Allora,  in cerca di lavoro,  bussò alla prima casa che le
    piacque  per  viverci,  e quando le domandarono cosa sapeva fare,  lei
    disse solo la verità: «Sogno».  Le bastò una  breve  spiegazione  alla
    padrona   di  casa  per  essere  accolta,   con  lo  stipendio  appena
    sufficiente per le piccole spese,  ma con una bella  camera  e  i  tre
    pasti. Soprattutto la colazione, che era il momento in cui la famiglia
    si  sedeva  per conoscere il destino immediato di ogni suo componente:
    il padre, che era un finanziere raffinato; la madre, una donna allegra
    e appassionata di musica da camera romantica,  e due bambini di undici
    e nove anni.  Tutti erano religiosi, e proprio per questo inclini alle
    superstizioni arcaiche, e accolsero felicissimi Frau Frida con l'unico
    incarico di decifrare il destino quotidiano della famiglia  attraverso
    i sogni.
    Lo  fece bene e per molto tempo,  soprattutto negli anni della guerra,
    quando la realtà  fu  più  sinistra  degli  incubi.  Solo  lei  poteva
    decidere all'ora di colazione quanto ognuno doveva fare quel giorno, e
    come  doveva  farlo,  finché i suoi pronostici non finirono per essere
    l'unica  autorità  nella  casa.  Il  suo  dominio  sulla  famiglia  fu
    assoluto: anche il sospiro più lieve era per ordine suo. Nei giorni in
    cui  io  mi  trovavo  a Vienna era appena morto il padrone di casa,  e
    aveva avuto l'eleganza di lasciare a lei una parte delle sue  rendite,
    con  l'unica condizione che continuasse a sognare per la famiglia sino
    alla fine dei suoi sogni.
    Rimasi a Vienna oltre un  mese,  condividendo  le  ristrettezze  degli
    studenti,  mentre aspettavo certo denaro che non arrivò mai. Le visite
    impreviste e generose di Frau Frida alla  taverna  erano  allora  come
    feste nel nostro regime di penurie.  Una di quelle sere,  nell'euforia
    della birra,  mi  parlò  all'orecchio  con  una  convinzione  che  non
    permetteva alcuna perdita di tempo.
    «Sono  venuta solo per dirti che la notte scorsa ho fatto un sogno che
    ti riguarda» mi disse.  «Devi andartene subito e non tornare a  Vienna
    nei prossimi cinque anni.»
    La  sua convinzione era così reale,  che la sera stessa presi l'ultimo
    treno per Roma. Io, da parte mia,  rimasi così colpito,  che da allora
    in poi mi sono considerato un sopravvissuto a un disastro ignoto.  Non
    ho ancora fatto ritorno a Vienna.
    Prima del disastro dell'Avana avevo visto Frau Frida a Barcellona,  in
    modo  così  inatteso  e casuale che mi era sembrato misterioso.  Fu il
    giorno in cui Pablo Neruda mise piede per la  prima  volta  in  Spagna
    dopo  la Guerra Civile,  durante lo scalo di un lento viaggio per mare
    verso Valparaiso.  Passò con noi una mattina di  caccia  grossa  nelle
    librerie dell'usato,  e da Porter comprò un libro antico,  sfasciato e
    avvizzito,  per il quale pagò quel che era stato il suo  stipendio  di
    due  mesi  al  consolato  di Rangoon.  Si muoveva fra le gente come un
    elefante invalido,  con  un  interesse  infantile  per  il  meccanismo
    interno  di  ogni  cosa,  perché  il  mondo  gli  sembrava  un immenso
    giocattolo a molla con cui si inventava la vita.
    Non ho conosciuto nessuno più simile all'idea che si  ha  di  un  papa
    rinascimentale: goloso e raffinato.  Anche contro la sua volontà,  era
    sempre lui a presiedere la tavola. Matilde, sua moglie, gli metteva un
    bavagliolo che sembrava più da  barbiere  che  per  mangiare,  ma  era
    l'unico  modo  per  impedirgli  di sporcarsi di salsa.  Quel giorno da
    Carvalleiras fu esemplare.  Si mangiò tre piatti  di  aragoste  intere
    squartandole  con una perizia da chirurgo,  e al contempo divorava con
    lo sguardo i piatti di tutti,  e piluccava da ognuno,  con un  piacere
    che contagiava la voglia di mangiare: le telline di Galizia, le lepade
    del Cantabrico,  gli scampi di Alicante,  le "espardenyas" della Costa
    Brava.  Nel  frattempo,  come  i  francesi,   parlava  solo  di  altre
    squisitezze culinarie, e in particolare dei frutti di mare preistorici
    del  Cile  che aveva dentro il cuore.  D'improvviso smise di mangiare,
    affinò le sue antenne da lupicante, e mi disse a voce bassissima:
    «Dietro di me c'è qualcuno che non la smette di fissarmi.»
    Guardai da sopra la sua spalla,  ed era proprio così.  Dietro di  lui,
    tre  tavoli più in là,  una donna impavida con un antiquato cappellino
    di feltro e una sciarpa viola, masticava piano tenendo gli occhi fissi
    su di lui. La riconobbi immediatamente.  Era invecchiata e grassa,  ma
    era lei, con l'anello a serpente all'indice.
    Viaggiava  da  Napoli  sulla  stessa nave dei Neruda,  ma non si erano
    visti a bordo. La invitammo a prendere il caffè al nostro tavolo, e la
    incoraggiai a parlare dei suoi sogni per stupire il poeta.  Lui non le
    badò,  perché  mise  in  chiaro  fin dall'inizio che non credeva nella
    divinazione dei sogni.
    «Solo la poesia è chiaroveggente» disse.
    Dopo il pranzo,  durante l'inevitabile  passeggiata  per  le  Ramblas,
    rimasi  volutamente  indietro  con Frau Frida per rinfrescare i nostri
    ricordi senza orecchi estranei.  Mi raccontò che aveva venduto le  sue
    proprietà in Austria,  e viveva ritirata a Oporto,  in Portogallo,  in
    una casa che descrisse come un finto castello sopra una collina da cui
    si vedeva tutto l'oceano fino alle Americhe.  Pur senza  dirlo,  nella
    sua  conversazione  era  chiaro che di sogno in sogno aveva finito per
    impadronirsi della fortuna dei suoi ineffabili padroni di Vienna.  Non
    mi impressionò, tuttavia, perché avevo sempre pensato che i suoi sogni
    fossero solo un espediente per vivere. E glielo dissi.
    Lei  se ne uscì nella sua risata irresistibile.  «Sei sempre lo stesso
    screanzato» mi disse. E non disse altro, perché il resto del gruppo si
    era fermato ad aspettare che Neruda finisse di parlare in gergo cileno
    con i pappagalli della Rambla de los Pájaros.  Quando  riprendemmo  la
    nostra chiacchierata, Frau Frida aveva cambiato argomento.
    «A proposito» mi disse, «ora puoi tornare a Vienna.»
    Solo  allora  mi resi conto che erano trascorsi tredici anni da quando
    ci eravamo conosciuti.
    «Anche se i tuoi sogni sono falsi,  io non ci tornerò» le dissi.  «Non
    si può mai sapere.»
    Alle  tre  ci  separammo  da  lei per accompagnare Neruda a far la sua
    sacra siesta.  La fece a casa nostra,  dopo certi preparativi  solenni
    che  in  qualche  modo  rammentavano  la cerimonia del tè in Giappone.
    Bisognava aprire certe finestre e chiuderne certe  altre  affinché  ci
    fosse  il grado di caldo esatto e una certa sorta di luce in una certa
    direzione, e un silenzio assoluto.  Neruda si addormentò subito,  e si
    svegliò   dieci   minuti  dopo,   come  i  bambini,   quando  meno  ce
    l'aspettavamo.  Comparve in salotto rinvigorito e col  monogramma  del
    cuscino stampato su una guancia.
    «Ho sognato quella donna che sogna» disse.
    Matilde volle farsi raccontare il sogno.
    «Ho sognato che lei stava sognando di me» disse lui.
    «E' roba da Borges» gli dissi.
    Lui mi guardò disincantato.
    «E' già scritto?»
    «Se  non  è già scritto lo scriverà prima o poi» gli dissi.  «Sarà uno
    dei suoi labirinti.»
    Non appena fu salito a bordo,  alle  sei  del  pomeriggio,  Neruda  si
    congedò da noi, si sedette a un tavolo discosto, e cominciò a scrivere
    versi fluidi con la penna a inchiostro verde con cui disegnava fiori e
    pesci  e  uccelli  nelle dediche dei suoi libri.  Al primo annuncio di
    partenza della nave cercammo Frau Frida,  e  infine  la  trovammo  sul
    ponte  della  classe  turistica  quando  già stavamo andandocene senza
    averla salutata.  Anche lei si era appena svegliata dalla siesta.  «Ho
    sognato il poeta» ci disse.
    Stupito, le chiesi di raccontarmi il sogno.
    «Ho  sognato  che  stava  sognando di me» disse,  e la mia espressione
    esterrefatta la confuse. «Cosa vuoi? A volte,  fra tanti sogni,  se ne
    infila uno che non ha nulla a che fare con la vita reale.»
    Non  la rividi né pensai a lei finché non venni a sapere dell'anello a
    forma di biscia della donna morta nel  naufragio  dell'Hotel  Riviera.
    Sicché  non resistetti alla tentazione di far domande all'ambasciatore
    portoghese quando ci incontrammo, qualche mese dopo,  a un ricevimento
    diplomatico.  L'ambasciatore  mi  parlò di lei con grande entusiasmo e
    un'enorme ammirazione. «Non può immaginare quanto fosse straordinaria»
    mi disse.  «Non avrebbe  resistito  alla  tentazione  di  scrivere  un
    racconto  su  di  lei.»  E  proseguì  nello stesso tono,  con dettagli
    stupefacenti,  ma senza una pista che mi permettesse  una  conclusione
    decisiva.
    «In concreto» puntualizzai alla fine: «cosa faceva?».
    «Nulla» mi disse lui, con un certo disincanto. «Sognava.»

    marzo 1980.


    «Sono venuta solo per telefonare».

    In un pomeriggio di piogge primaverili, mentre viaggiava da sola verso
    Barcellona guidando un'automobile a nolo, María de la Luz Cervantes si
    ritrovò  bloccata  nel  deserto  dei  Monegros.  Era  una messicana di
    ventisette anni,  graziosa e seria,  che anni prima  aveva  avuto  una
    certa  fama come attrice di varietà.  Era sposata con un prestigiatore
    da salotto,  che stava per raggiungere  quel  giorno,  reduce  da  una
    visita a certi parenti di Saragozza.  Dopo un'ora di segnali disperati
    alle automobili e  ai  camion  da  carico  che  passavano  veloci  nel
    temporale, il conducente di un autobus sconquassato ebbe pietà di lei.
    L'avvertì, comunque, che non andava molto lontano.
    «Non  importa»  disse  María.  «L'unica  cosa  di  cui ho bisogno è un
    telefono.»
    Era vero, ne aveva bisogno solo per avvisare il marito che non sarebbe
    arrivata prima delle sette di sera.  Sembrava un  uccellino  fradicio,
    con un soprabito da studente e i sandali da spiaggia in aprile, ed era
    così  confusa  per  via del guasto che dimenticò di prendere le chiavi
    dell'automobile.  Una  donna  che  viaggiava  accanto  al  conducente,
    dall'aspetto militare ma dai modi dolci, le diede un asciugamano e una
    coperta,  e le fece posto vicino a sé.  Dopo essersi asciugata un po',
    María si sedette, si avvolse nella coperta,  e cercò di accendersi una
    sigaretta,  ma i fiammiferi erano bagnati. La vicina di posto le offrì
    del fuoco e le chiese una delle  poche  sigarette  che  le  rimanevano
    asciutte.  Mentre fumavano,  María cedette all'ansia di sfogarsi, e la
    sua  voce  riecheggiò  più  forte  della  pioggia  e   del   tramestio
    dell'autobus. La donna la interruppe con l'indice sulle labbra.
    «Sono addormentate» mormorò.
    María guardò da sopra la spalla,  e vide che l'autobus era occupato da
    donne di età incerte e di condizioni diverse, che dormivano avvolte in
    coperte uguali alla  sua.  Contagiata  dalla  loro  quiete,  María  si
    rannicchiò  sul sedile e si abbandonò al rumore della pioggia.  Quando
    si svegliò era notte fonda e  l'acquazzone  si  era  dissolto  in  una
    pioviggine  gelida.  Non  aveva  la minima idea di quanto tempo avesse
    dormito né di dove si trovassero nel mondo.  La sua  vicina  di  posto
    stava all'erta.
    «Dove siamo?» le domandò María.
    «Siamo arrivate» rispose la donna.
    L'autobus  stava  entrando  nel  cortile  acciottolato  di un edificio
    enorme e cupo che sembrava un vecchio convento in un bosco  di  alberi
    colossali.  Le  passeggere,  fiocamente  illuminate da un lampione del
    cortile,  rimasero immobili finché la donna dall'aspetto militare  non
    le fece scendere con una serie di ordini elementari,  come in un asilo
    infantile.  Tutte erano anziane,  e si muovevano con  tale  parsimonia
    nella  penombra del cortile che sembravano figure di un sogno.  María,
    l'ultima a scendere,  pensò che fossero  monache.  Lo  pensò  di  meno
    quando  vide  diverse donne in uniforme che le accoglievano all'uscita
    dall'autobus,  e riparavano loro la testa con le coperte perché non si
    bagnassero,  e  le  disponevano  in  fila  indiana,  guidandole  senza
    parlare,  con schiocchi  di  mano  ritmici  e  perentori.  Dopo  avere
    salutato la sua vicina di posto María volle restituirle la coperta, ma
    lei  le  disse  di ripararsi la testa per attraversare il cortile e di
    restituirla in portineria.
    «Ci sarà un telefono?» le domandò María.
    «Naturalmente» disse la donna. «Glielo indicheranno lì.»
    Chiese a María un'altra  sigaretta,  e  lei  le  diede  il  resto  del
    pacchetto bagnato. «Per strada si asciugheranno» le disse. La donna le
    fece  un  saluto con la mano stando sul predellino,  e quasi le gridò:
    «Buona fortuna». L'autobus partì subito senza lasciarle altro tempo.
    María prese a correre verso  l'entrata  dell'edificio.  Una  guardiana
    cercò  di  fermarla  con  un  energico  schiocco  di mani,  ma dovette
    ricorrere a un grido imperioso: «Ferma,  ho detto».  María  guardò  da
    sotto  la  coperta,  e  vide  un  paio  d'occhi  di  gelo  e un indice
    inappellabile  che  le  indicò  la  fila.  Obbedì.   Poi,   nell'atrio
    dell'edificio,  si separò dal gruppo e domandò al portinaio dove c'era
    un telefono.  Una delle guardiane la fece tornare in fila con  qualche
    pacca sulla schiena, mentre le diceva con modi dolcissimi:
    «Di qua, bella, di qua c'è un telefono.»
    María  proseguì  con  le  altre donne lungo un corridoio tenebroso,  e
    infine entrò in un dormitorio dove le guardiane ritirarono le  coperte
    e presero ad assegnare i letti.  Una donna diversa, che a María sembrò
    più umana e gerarchicamente più in alto, percorse la fila confrontando
    una lista con i nomi che le donne appena arrivate avevano  scritto  su
    un  cartoncino  cucito  alla  blusa.  Quando arrivò davanti a María si
    stupì che non avesse il suo segno di identificazione.
    «E' che io sono venuta solo per telefonare» le disse María.
    Le spiegò di gran fretta che la sua automobile aveva avuto  un  guasto
    lungo la strada.  Il marito,  che era un mago per feste private, stava
    aspettandola a Barcellona dove aveva tre impegni fino a mezzanotte,  e
    voleva  avvertirlo  che  non  avrebbe fatto in tempo ad accompagnarlo.
    Erano quasi le sette. Lui sarebbe uscito di casa di lì a dieci minuti,
    e lei temeva che annullasse tutto per il  suo  ritardo.  La  guardiana
    sembrò ascoltarla con attenzione.
    «Come ti chiami?»
    María le disse il suo nome con un sospiro di sollievo, ma la donna non
    lo  trovò  dopo  avere  ricontrollato  la lista più volte.  Lo domandò
    allarmata a una guardiana,  e questa,  senza dire  nulla,  scrollò  le
    spalle.
    «E' che io sono venuta solo per telefonare» disse María.
    «Certo,  tesoro» le disse la direttrice, guidandola verso il suo letto
    con una dolcezza troppo ostentata per essere reale,  «se  ti  comporti
    bene potrai telefonare a chi vorrai. Ma adesso no, domani.»
    Qualcosa accadde allora nella mente di María che le fece capire perché
    le  donne  dell'autobus  si muovevano come in fondo a un acquario.  In
    realtà,  erano sotto l'effetto di tranquillanti,  e  quel  palazzo  in
    ombra,  con  grossi  muri  di  pietra e scale gelide,  era di fatto un
    ospedale  per  malate  di  mente.  Spaventata,   fuggì  di  corsa  dal
    dormitorio, e prima di arrivare al portone una guardiana gigantesca in
    tuta  da  meccanico  l'acchiappò  con un'artigliata e la immobilizzò a
    terra con una presa magistrale.  María la guardò di sbieco paralizzata
    dal terrore.
    «Per l'amor di Dio» disse.  «Le giuro sulla buonanima di mia madre che
    io sono venuta solo per telefonare.»
    Le bastò vederle la  faccia  per  sapere  che  non  esisteva  supplica
    possibile  davanti a quell'energumena in tuta che chiamavano Herculina
    per la sua forza incredibile.  Si occupava dei casi difficili,  e  due
    recluse  erano  morte  strangolate  dal  suo  braccio  da  orso polare
    addestrato nell'arte di ammazzare per negligenza. Il primo caso si era
    risolto come un  incidente  comprovato.  Il  secondo  era  stato  meno
    chiaro,  ed  Herculina  era  stata ammonita e avvisata che la prossima
    volta si sarebbe inquisito a fondo su di lei. La versione corrente era
    che quella pecorella smarrita di una  famiglia  dal  nome  altisonante
    avesse  una torbida carriera di incidenti sospetti in diversi manicomi
    della Spagna.
    La prima notte, affinché María si addormentasse,  dovettero iniettarle
    un sonnifero.  Prima dell'alba, quando la svegliò la voglia di fumare,
    era legata per i polsi e le caviglie alle sbarre  del  letto.  Nessuno
    accorse alle sue grida.  Al mattino, mentre a Barcellona il marito non
    scopriva alcuna sua traccia, dovettero portarla all'infermeria, perché
    l'avevano trovata priva di sensi nel pantano delle sue stesse miserie.
    Non seppe quanto tempo fosse trascorso allorché tornò in sé. Ma già il
    tempo era un ristagno d'amore, e davanti al suo letto c'era un vecchio
    monumentale,   con   un'andatura   da   plantigrado   e   un   sorriso
    tranquillizzante,  che  con  due  gesti  abili le restituì la gioia di
    vivere. Era il direttore dell'ospedale.
    Prima di dirgli alcunché,  senza neppure salutarlo,  María gli  chiese
    una sigaretta. Lui gliela porse accesa, e le regalò il pacchetto quasi
    pieno. María non riusci a reprimere le lacrime.
    «Approfittane  ora  per piangere quanto vuoi» le disse il medico,  con
    una voce ninnante. «Non c'è rimedio migliore delle lacrime.»
    María si sfogò senza pudore,  come non era mai riuscita a fare  con  i
    suoi amanti casuali nel tedio del dopo l'amore. Mentre l'ascoltava, il
    medico  la  pettinava con le dita,  le sistemava il guanciale affinché
    respirasse meglio, la guidava lungo il labirinto della sua indecisione
    con una saggezza e una dolcezza che lei non si era mai  sognata.  Era,
    per la prima volta nella sua vita,  il miracolo di essere capita da un
    uomo che l'ascoltava con tutta l'anima senza aspettare  la  ricompensa
    di mettersi a letto con lei.  Al termine di una lunga ora, sfogatasi a
    fondo, gli chiese l'autorizzazione di telefonare al marito.
    Il medico si raddrizzò con tutta la maestà del suo rango. «Non ancora,
    carissima» le disse,  facendole sulla guancia il buffetto  più  tenero
    che  mai  le  avessero  fatto.  «Ogni  cosa a suo tempo.» Le diede una
    benedizione episcopale dalla soglia, e scomparve per sempre.
    «Abbi fiducia in me» le disse.
    Quello stesso pomeriggio  María  fu  registrata  all'ospedale  con  un
    numero di matricola,  e con un commento superficiale sull'enigma della
    sua provenienza e i dubbi sulla sua identità.  In margine  c'era  pure
    un'annotazione scritta di pugno dal direttore: "agitata".
    Come  María  aveva previsto,  il marito uscì dal loro appartamento del
    quartiere di Horta con mezz'ora di ritardo per tenere fede ai suoi tre
    impegni.  Era la prima volta che lei non arrivava per tempo  in  quasi
    due  anni  di  un'unione  libera  ben  concertata,  e lui si spiegò il
    ritardo con la ferocia delle piogge che devastarono  la  provincia  in
    quel finesettimana. Prima di uscire lasciò un messaggio attaccato alla
    porta con l'itinerario di quella sera.
    Alla prima festa,  con tutti i bambini travestiti da canguri,  eliminò
    il trucco spettacolare dei pesci invisibili perché  non  poteva  farlo
    senza l'aiuto di lei.  Il secondo impegno era a casa di una vecchia di
    novantatré anni,  su seggiola a  rotelle,  che  si  vantava  di  avere
    festeggiato  ognuno  dei  suoi  ultimi  trenta  compleanni con un mago
    diverso. Lui era così contrariato dal ritardo di María, che non riuscì
    a concentrarsi nei giochi più semplici. Il terzo impegno era quello di
    ogni sera in un caffè-concerto delle  Ramblas,  dove  si  esibì  senza
    ispirazione  per  un  gruppo di turisti francesi che non credettero in
    quel che vedevano perché si rifiutavano di credere nella  magia.  Dopo
    ogni  spettacolo  telefonò a casa,  e attese senza illusioni che María
    rispondesse. Alla fine non riuscì più a reprimere il presentimento che
    fosse successo qualcosa di brutto.
    Di ritorno a casa sul  camioncino  adattato  per  le  rappresentazioni
    pubbliche  vide  lo splendore della primavera sulle palme del Paseo de
    Gracia, e rabbrividì al pensiero funesto di come avrebbe potuto essere
    la città senza María.  L'ultima speranza svanì non appena trovò il suo
    messaggio  ancora attaccato alla porta.  Era così contrariato,  che si
    dimenticò di dar da mangiare al gatto.
    Solo ora che lo scrivo mi rendo conto che non ho mai  saputo  come  si
    chiamava  in  realtà,  perché a Barcellona lo conoscevamo solo col suo
    nome di lavoro: Saturno il Mago.  Era un uomo dal carattere  strano  e
    con  una  goffaggine sociale irrimediabile,  ma il tatto e il garbo di
    cui scarseggiava abbondavano in María.  Era lei a guidarlo per mano in
    questa comunità di grandi misteri,  dove a nessuno sarebbe passato per
    la testa di telefonare a qualche conoscente  dopo  la  mezzanotte  per
    domandare  della  propria  moglie.  Saturno  l'aveva  fatto quando era
    arrivato da poco,  e non voleva ricordarsene.  Sicché quella notte  si
    limitò  a telefonare a Saragozza,  dove una nonna semiaddormentata gli
    rispose senza inquietarsi che María era partita dopo  il  pranzo.  Non
    dormì che un'ora all'alba. Fu un sonno pantanoso durante il quale vide
    María con un vestito da sposa a brandelli e spruzzato di sangue,  e si
    svegliò con la certezza spaventosa che l'aveva di nuovo lasciato solo,
    e ora per sempre, nel vasto mondo senza di lei.
    L'aveva fatto tre volte con tre uomini  diversi,  lui  incluso,  negli
    ultimi  cinque anni.  L'aveva abbandonato a Città del Messico dopo sei
    mesi che si conoscevano,  quando agonizzavano di felicità con un amore
    demente  in  una  stanza  di servizio di Colonia Anzures.  Una mattina
    María non era più in casa dopo  una  notte  di  abusi  inconfessabili.
    Aveva  lasciato tutto quanto era suo,  persino l'anello del matrimonio
    precedente,  e una lettera  in  cui  diceva  che  non  era  capace  di
    sopravvivere  al tormento di quell'amore folle.  Saturno aveva pensato
    che fosse tornata dal primo marito, un compagno delle scuole medie con
    cui si era sposata di nascosto essendo ancora minorenne,  e che  aveva
    abbandonato per un altro dopo due anni senza amore. Ma no: era tornata
    a  casa  dei genitori,  e lì Saturno era andato a cercarla a qualsiasi
    prezzo.  L'aveva supplicata senza condizioni,  le aveva promesso molto
    più  di  quanto fosse deciso a mantenere,  ma si era scontrato con una
    risoluzione irremovibile. «Ci sono amori brevi e ci sono amori lunghi»
    gli aveva detto lei.  E aveva concluso senza misericordia:  «Questo  è
    stato breve».  Lui si era arreso davanti al suo rigore.  Tuttavia, una
    mattina di Ognissanti, mentre se ne tornava nella sua camera di orfano
    dopo quasi un anno di oblio,  l'aveva trovata che dormiva  sul  divano
    del  salotto  con  la  corona di zagare e il lungo strascico di crespo
    delle spose vergini.
    María gli aveva raccontato la  verità.  Il  nuovo  fidanzato,  vedovo,
    senza  figli,  con  la vita organizzata e il desiderio di sposarsi per
    sempre in chiesa,  l'aveva  lasciata  vestita  ad  aspettarlo  davanti
    all'altare.  I suoi genitori avevano deciso di fare comunque la festa.
    Lei aveva assecondato il gioco. Aveva ballato, cantato con l'orchestra
    di "mariachis", bevuto a oltranza,  e in un terribile stato di rimorsi
    tardivi a mezzanotte era andata a cercare Saturno.
    Non  era  in  casa,  ma  aveva trovato le chiavi nel vaso di fiori del
    corridoio, dove le nascondevano sempre.  Questa volta era stata lei ad
    arrendersi senza condizioni. «E adesso fin quando?» le aveva domandato
    lui.  Lei  gli  aveva  risposto  con  un  verso di Vinicius de Moraes:
    «L'amore è eterno finché dura». Due anni dopo, era ancora eterno.
    María era sembrata maturare.  Aveva rinunciato ai suoi sogni  di  fare
    l'attrice  e  si era dedicata a lui,  nel lavoro e a letto.  Alla fine
    dell'anno precedente avevano partecipato a un  congresso  di  maghi  a
    Perpignan, e di ritorno avevano conosciuto Barcellona. L'avevano amata
    tanto che da otto mesi stavano qui,  e se la passavano così bene,  che
    avevano comprato un appartamento nel catalanissimo quartiere di Horta,
    rumoroso e senza portinaio,  ma con tutto lo spazio che  volevano  per
    cinque figli.  Era stata la felicità possibile,  sino al finesettimana
    in cui lei aveva noleggiato un'automobile e si era recata a visitare i
    suoi parenti di Saragozza con la promessa di  tornare  alle  sette  di
    sera  del lunedì.  All'alba del giovedì non aveva ancora dato segno di
    vita.
    Il lunedì della settimana successiva  la  compagnia  di  assicurazioni
    dell'automobile  noleggiata  telefonò  a  casa per domandare di María.
    «Non so nulla» disse Saturno. «Cercatela a Saragozza.» Riattaccò.  Una
    settimana  dopo  un  poliziotto si presentò con la notizia che avevano
    trovato l'automobile ridotta all'osso,  in una  scorciatoia  vicino  a
    Cadice,  a  novecento  chilometri  dal  posto  in  cui  María  l'aveva
    abbandonata. L'agente voleva sapere se lei conosceva maggiori dettagli
    del furto.  Saturno stava dando da mangiare  al  gatto,  e  lo  guardò
    appena  per  dirgli  senza  tante  perifrasi  di non star lì a perdere
    tempo,  perché sua moglie se n'era scappata di casa e lui  non  sapeva
    con chi né dove.  Era tale la sua convinzione, che l'agente si sentì a
    disagio e gli chiese scusa per le sue domande.  Il caso fu  dichiarato
    chiuso.
    Il  timore che María potesse di nuovo andarsene aveva assalito Saturno
    verso la Pasqua di Resurrezione a Cadaqués,  dove Rosa Regás li  aveva
    invitati  sulla  sua barca a vela.  Eravamo al Marítim,  l'affollato e
    sordido bar  della  "gauche  divine"  al  crepuscolo  del  franchismo,
    intorno  a  uno  di  quei tavolini di ferro con seggiole di ferro dove
    potevamo stare a stento in sei e ci  sedevamo  in  venti.  Dopo  avere
    finito il secondo pacchetto di sigarette della giornata,  María si era
    ritrovata senza fiammiferi.  Un braccio magro dai peli virili  con  un
    braccialetto  di  bronzo  romano  si  era fatto strada nella ressa del
    tavolino,  e le aveva offerto da accendere.  Lei  l'aveva  ringraziato
    senza  guardare  chi fosse,  ma Saturno il Mago l'aveva visto.  Era un
    adolescente ossuto e glabro,  con un pallore da morto e  una  coda  di
    cavallo  nerissima  che  gli arrivava fino alla vita.  I vetri del bar
    faticavano a reggere la furia della tramontana di  primavera,  ma  lui
    era vestito con una specie di pigiama da passeggio di cotone grezzo, e
    un paio di sandali da contadino.
    Non  l'avevano rivisto sino alla fine dell'autunno,  in una taverna di
    Barceloneta specializzata in frutti di mare, con lo stesso completo di
    telaccia e una lunga treccia invece della coda di  cavallo.  Li  aveva
    salutati  entrambi come vecchi amici,  e dal modo in cui aveva baciato
    María,  e dal modo in cui lei  l'aveva  contraccambiato,  Saturno  era
    stato fulminato dal sospetto che si fossero visti di nascosto. Qualche
    giorno  dopo  aveva  trovato  per  caso  un  nome nuovo e un numero di
    telefono scritti da María sull'agenda di casa, e l'inclemente lucidità
    della gelosia gli aveva rivelato di chi  fossero.  La  scheda  sociale
    dell'intruso  lo  mise  a  tappeto:  ventidue  anni,  figlio  unico di
    genitori ricchi,  vetrinista di negozi di moda con una fama facile  di
    bisessuale e un prestigio ben fondato di consolatore a nolo di signore
    sposate.  Ma era riuscito a dominarsi fino alla notte in cui María non
    era rincasata.  Allora aveva cominciato a telefonargli tutti i giorni,
    dapprima  ogni  due  o  tre  ore,  dalle sei del mattino fino all'alba
    successiva,  e poi ogni volta che trovava un  telefono  a  portata  di
    mano. Il fatto che nessuno rispondesse aumentava il suo martirio.
    Il quarto giorno gli aveva risposto un'andalusa che si trovava li solo
    per fare le pulizie. «Il signorino è partito» gli aveva detto, con una
    vaghezza sufficiente per farlo impazzire.  Saturno non aveva resistito
    alla tentazione di domandarle se per caso lì non ci fosse la signorina
    María.
    «Qui non abita  nessuna  María»  gli  aveva  risposto  la  donna.  «Il
    signorino è scapolo.»
    «Questo  lo  so» le aveva detto lui.  «Non ci abita,  ma ogni tanto ci
    viene. O no?»
    La donna si era arrabbiata.
    «Ma chi cazzo sta parlando?»
    Saturno aveva riattaccato.  La risposta negativa della donna  gli  era
    sembrata  una  nuova  conferma  di  quel  che  per  lui non era più un
    sospetto ma una certezza bruciante.  Aveva  perso  il  controllo.  Nei
    giorni  successivi  aveva  telefonato  per ordine alfabetico a tutti i
    conoscenti di Barcellona.  Nessuno  gli  aveva  dato  retta,  ma  ogni
    telefonata  aveva  acuito  la sua sofferenza,  perché i suoi deliri di
    gelosia erano ormai famosi in quel gruppo  di  nottambuli  impenitenti
    della  "gauche  divine",  e  gli rispondevano con qualsiasi scherzo lo
    facesse soffrire.  Solo allora aveva capito fino a che punto era  solo
    in  quella  città  bella,  lunatica e impenetrabile,  dove mai sarebbe
    stato felice. All'alba,  dopo avere dato da mangiare al gatto,  si era
    fatto forza per non morire,  e aveva preso la decisione di dimenticare
    María.
    Di lì a due mesi,  María non si era ancora abituata  alla  vita  della
    casa di cura. Sopravviveva sbocconcellando appena il vitto del carcere
    con le posate fissate al tavolo di legno grezzo,  e lo sguardo puntato
    sulla litografia del  generale  Francisco  Franco  che  presiedeva  la
    lugubre  mensa  medievale.  All'inizio  opponeva  resistenza  alle ore
    canoniche con la loro  consueta  serie  sciapa  di  mattutini,  laudi,
    vespri,  e  altri uffizi di chiesa che prendevano la maggior parte del
    tempo.  Rifiutava di giocare a palla nel cortile della ricreazione,  e
    di lavorare nel laboratorio dove un gruppo di recluse fabbricava fiori
    artificiali  con  una  diligenza  frenetica.  Ma a partire dalla terza
    settimana a poco a poco si inserì nella vita del chiostro.  In fin dei
    conti,  dicevano  i  medici,  tutte  cominciavano così,  e prima o poi
    finivano per integrarsi nella comunità.
    La mancanza di sigarette,  risolta nei primi giorni da  una  guardiana
    che le vendeva a peso d'oro,  riprese a tormentarla quando ebbe finito
    il poco denaro che aveva con sé.  Si consolò poi con le  sigarette  di
    carta  di  giornale  che  talune  recluse fabbricavano con i mozziconi
    raccolti nell'immondizia,  perché l'ossessione di fumare era diventata
    violenta  come  quella del telefono.  Lo scarso denaro che guadagnò in
    seguito fabbricando fiori artificiali le permise un sollievo effimero.
    La cosa  più  dura  era  la  solitudine  delle  notti.  Molte  recluse
    rimanevano  sveglie  nella  penombra,  come  lei,  ma senza far nulla,
    perché anche la guardiana notturna vegliava davanti al portone  chiuso
    con   catenaccio   e   lucchetto.   Una  notte,   comunque,   oppressa
    dall'angoscia,  María domandò con voce  sufficiente  per  farsi  udire
    dalla sua vicina di letto:
    «Dove siamo?»
    La voce grave e lucida della vicina le rispose:
    «Nei profondi inferni.»
    «Dicono che questa sia terra di mori» disse un'altra voce distante che
    risuonò  nello  spazio  del  dormitorio.  «E  deve esser vero,  perché
    d'estate, quando c'è luna, si sentono i cani che abbaiano al mare.»
    Si udì il catenaccio nei suoi anelli come l'ancora di un galeone, e la
    porta si aprì.  Il cerbero,  unica creatura  che  sembrasse  viva  nel
    silenzio  repentino,  cominciò  ad aggirarsi da un'estremità all'altra
    del dormitorio. María si rattrappì, e solo lei sapeva perché.
    Fin dalla sua prima settimana all'ospedale,  la sorvegliante  notturna
    le  aveva proposto senza perifrasi di dormire con lei nella guardiola.
    Aveva iniziato con un tono da trattativa concreta: baratto d'amore per
    sigarette,  cioccolatini,  qualsiasi cosa.  «Avrai tutto»  le  diceva,
    tremebonda.  «Sarai  la  regina!»  Dinanzi  al  rifiuto  di María,  la
    guardiana aveva mutato metodo.  Le lasciava biglietti d'amore sotto il
    guanciale,  nelle  tasche  della  vestaglia,  nei posti più impensati.
    Erano messaggi di  un'urgenza  straziante  capace  di  impietosire  le
    pietre.  La  notte  in cui accadde l'incidente del dormitorio,  era da
    oltre un mese che lei sembrava rassegnata alla sconfitta.
    Quando fu convinta che tutte le recluse  dormivano,  la  guardiana  si
    avvicinò  al  letto di María,  e le mormorò all'orecchio ogni sorta di
    oscenità tenere,  mentre le  baciava  il  viso,  il  collo  rigido  di
    terrore,  le  braccia  febbrili,  le  gambe  spossate.  Infine,  forse
    credendo che  la  paralisi  di  María  non  fosse  per  paura  ma  per
    compiacenza,  si  azzardò a spingersi oltre.  María le mollò allora un
    colpo col rovescio della mano che la spinse contro il letto vicino. La
    guardiana si raddrizzò furibonda in mezzo allo scandalo delle  recluse
    in schiamazzo.
    «Figlia di puttana» gridò. «Marciremo insieme in questo porcile finché
    non sarai pazza di me.»
    L'estate  arrivò  senza  preavviso  la prima domenica di giugno,  e si
    dovettero prendere misure di emergenza,  perché durante  la  messa  le
    recluse  soffocate cominciavano a togliersi le palandrane di stamigna.
    María assistì divertita allo  spettacolo  delle  malate  nude  che  le
    guardiane  rincorrevano  per  le navate come galline cieche.  In mezzo
    alla confusione,  cercò di proteggersi dai colpi a mansalva,  e  senza
    sapere  come  si  ritrovò  sola  in  un ufficio abbandonato,  e con un
    telefono che squillava senza tregua con un suono supplichevole.  María
    rispose  senza  pensarci,  e  udì una voce lontana e sorridente che si
    divertiva imitando il servizio telefonico dell'ora esatta:
    «Sono le ore quarantacinque, novantadue minuti e centosette secondi.»
    «Finocchio» disse María.
    Riattaccò divertita.  E già se ne andava,  quando si accorse che stava
    lasciandosi  sfuggire  un'occasione  irripetibile.  Allora  compose un
    numero di sei cifre,  con tanta tensione e tanta fretta,  che  non  fu
    sicura  che  fosse il suo numero di casa.  Attese col cuore impazzito,
    udì lo squillo familiare col suo tono avido e triste,  una volta,  due
    volte,  tre volte, e udì infine la voce dell'uomo della sua vita nella
    casa senza di lei.
    «Pronto?»
    Dovette aspettare che passasse il groppo di lacrime che le si formò in
    gola.
    «Coniglietto, vita mia» sospirò.
    Le lacrime la sopraffecero.  Dall'altra parte del filo ci fu un  breve
    silenzio di terrore, e la voce accesa dalla gelosia sputò la parola:
    «Puttana!»
    E subito riappese.
    Quella sera,  in una crisi di frenesia, María staccò dal refettorio la
    litografia del generalissimo, la scagliò con tutte le sue forze contro
    la vetrata del giardino,  e crollò a terra  bagnata  di  sangue.  Ebbe
    ancora  abbastanza  ira  per  affrontare  i guardiani che tentarono di
    piegarla,  senza riuscirci,  finché non vide Herculina dritta nel vano
    della porta,  con le braccia conserte, che la guardava. Si arrese. Ciò
    malgrado,  la trascinarono fino al  padiglione  delle  pazze  furiose,
    l'annicchilirono  con  un  getto  d'acqua  gelida,  e  le  iniettarono
    trementina nelle gambe.  Incapace  di  camminare  per  l'infiammazione
    sopraggiunta, María si rese conto che non c'era nulla al mondo che non
    fosse  in grado di fare pur di fuggire da quell'inferno.  La settimana
    successiva, ormai tornata nel dormitorio,  si alzò in punta di piedi e
    bussò alla cella della guardiana notturna.
    Il  prezzo  di  María,  da  lei preteso in anticipo,  fu di portare un
    messaggio  a  suo  marito.  La  guardiana  accettò,   purché  l'affare
    rimanesse  nel  più  assoluto  segreto.  E  le  puntò contro un indice
    inesorabile.
    «Se si dovesse venire a sapere, ti ammazzo.»
    E così Saturno il Mago si recò  all'ospedale  delle  pazze  il  sabato
    successivo,  col  camioncino  da  circo  preparato  per festeggiare il
    ritorno di María.  Il  direttore  in  persona  lo  ricevette  nel  suo
    ufficio,  pulito  e  ordinato  come una nave da guerra,  e gli fece un
    resoconto affettuoso sulle condizioni di sua moglie. Nessuno sapeva da
    dove fosse arrivata,  né come né quando,  perché il primo dato sul suo
    ingresso  era  la  registrazione  ufficiale dettata da lui dopo averle
    parlato.  Una ricerca avviata nello stesso giorno non aveva portato  a
    nulla.  Comunque, quel che più incuriosiva il dottore era come Saturno
    aveva  saputo  dove  era  finita  sua  moglie.   Saturno  protesse  la
    guardiana.
    «Sono    stato    informato    dalla    compagnia   di   assicurazioni
    dell'automobile» disse.
    Il direttore annuì compiaciuto. «Non so come facciano le assicurazioni
    a sapere tutto» disse.  Diede un'occhiata allo scartafaccio che  aveva
    sulla scrivania da asceta, e concluse:
    «L'unica cosa sicura è la gravità delle sue condizioni.»
    Era  disposto  ad  autorizzare una visita con le debite precauzioni se
    Saturno il Mago gli prometteva, per il bene della moglie, di attenersi
    al comportamento che lui gli avrebbe indicato.  Soprattutto quanto  al
    modo  di  trattarla,  per evitare che ricadesse nelle sue crisi di ira
    sempre più frequenti e pericolose.
    «E' strano» disse Saturno. «E' sempre stata una testa matta, ma sapeva
    controllarsi.»
    Il medico  fece  un  gesto  da  saggio.  «Ci  sono  comportamenti  che
    rimangono  latenti  per molti anni,  e un bel giorno esplodono» disse.
    «Comunque, è una fortuna che sia finita qui,  perché siamo specialisti
    in  casi che richiedono una mano dura.» Infine lo avvertì della strana
    ossessione di María per il telefono.
    «La assecondi» disse.
    «Stia tranquillo,  dottore» disse Saturno con un'aria allegra.  «E' la
    mia specialità.»
    La  sala per le visite,  miscuglio di carcere e di confessionale,  era
    l'antico  parlatorio  del  convento.   L'entrata  di  Saturno  non  fu
    l'esplosione di gioia che entrambi avrebbero potuto aspettarsi.  María
    era in piedi in mezzo  alla  sala,  accanto  a  un  tavolino  con  due
    seggiole  e un vaso da fiori senza fiori.  Si vedeva che era pronta ad
    andarsene,  col suo misero soprabito  color  fragola  e  certe  scarpe
    sordide  che  le  avevano  dato  per  carità.   In  un  angolo,  quasi
    invisibile,  c'era Herculina con le braccia  conserte.  María  non  si
    mosse  quando  vide  entrare  il  marito né lasciò trasparire emozione
    alcuna sul viso ancora  spruzzato  dallo  scempio  della  vetrata.  Si
    diedero un bacio abitudinario.
    «Come stai?» le domandò lui.
    «Felice  che tu sia finalmente arrivato,  coniglietto» disse lei.  «E'
    stato come morire.»
    Non ebbero il tempo di sedersi.  Soffocata dalle  lacrime,  María  gli
    raccontò  le  miserie  del chiostro,  la barbarie delle guardiane,  il
    vitto da cani,  le notti interminabili senza chiudere gli occhi per il
    terrore.
    «Non so più da quanti giorni sono qui, o mesi o anni, ma so che ognuno
    è  stato  peggiore  dell'altro»  disse,  e  sospirò con tutta l'anima.
    «Credo che non sarò più la stessa.»
    «Ora è passato tutto» disse lui,  accarezzandole con  la  punta  delle
    dita  le  cicatrici recenti sul viso.  «Io continuerò a venire tutti i
    sabati.  E anche di più,  se il direttore me lo permette.  Vedrai  che
    tutto finirà benissimo.»
    Lei  fissò  gli  occhi atterriti nei suoi occhi.  Saturno tentò le sue
    arti da salotto. Le raccontò, col tono puerile delle grosse bugie, una
    versione edulcorata dei pronostici del medico.  «In sintesi» concluse,
    «ti  manca ancora qualche giorno per riprenderti completamente.» María
    capì la verità.
    «In nome di Dio, coniglietto!» disse, attonita.  «Non crederai pure tu
    che io sono pazza!»
    «Ma  cosa vai a pensare!» disse lui,  cercando di ridere.  «Il fatto è
    che sarà molto meglio per tutti se rimarrai  qui  ancora  un  po'.  In
    condizioni migliori, naturalmente.»
    «Ma se ti ho già detto che ci sono venuta solo per telefonare!» ripeté
    Maria.
    Lui non seppe come reagire dinanzi a quell'ossessione temibile. Guardò
    Herculina.  Questa  ne  approfittò  per indicargli sul suo orologio da
    polso che era tempo di mettere fine alla visita. María colse il cenno,
    si guardò alle spalle,  e vide Herculina nella  tensione  dell'assalto
    imminente.  Allora  si  aggrappò al collo del marito gridando come una
    vera pazza.  Lui se la tolse di dosso con tutto  l'amore  che  gli  fu
    possibile,  e  la lasciò alla mercé di Herculina,  che con un balzo si
    fece avanti.  Senza darle il tempo di reagire la  serrò  con  la  mano
    sinistra,  le passò l'altro braccio di ferro intorno al collo, e gridò
    a Saturno il Mago:
    «Se ne vada!»
    Saturno fuggì via impaurito.
    Tuttavia,  il sabato successivo,  ormai ripreso dallo  spavento  della
    visita,  tornò alla casa di cura col gatto vestito come lui: la maglia
    rossa e gialla del gran Léotard,  la bombetta e un ampio mantello  che
    sembrava  servisse  per volare.  Entrò col camioncino da fiera fin nel
    cortile del chiostro,  e lì si esibì in uno spettacolo  prodigioso  di
    quasi  tre  ore  che  le  recluse si godettero dai balconi,  con grida
    dissonanti e ovazioni inopportune. C'erano tutte, meno María,  che non
    solo  rifiutò  di  ricevere  il marito,  ma addirittura di vederlo dai
    balconi. Saturno si sentì ferito a morte.
    «E' una reazione tipica» lo consolò il direttore. «Passerà.»
    Ma non passò mai.  Dopo avere tentato molte volte di  rivedere  María,
    Saturno  fece  l'impossibile perché accettasse una sua lettera,  ma fu
    inutile. Quattro volte la restituì chiusa e senza commenti. Saturno si
    arrese,  ma continuò a  lasciare  nella  portineria  dell'ospedale  le
    razioni di sigarette, senza neppure sapere se arrivavano fino a María,
    finché non lo sopraffece la realtà.
    Non si seppe mai più nulla di lui,  tranne che si risposò,  e che fece
    ritorno al suo paese. Prima di andarsene da Barcellona lasciò il gatto
    mezzo morto di fame a una fidanzatina casuale,  che si impegnò pure  a
    portare  sempre le sigarette a María.  Ma anche lei sparì.  Rosa Regás
    ricordava di averla vista ai grandi magazzini del Corte Inglés  dodici
    anni  fa,  con  la testa rapata e la palandrana arancione di una setta
    orientale,   e  vistosamente  incinta.   Lei  le  raccontò  che  aveva
    continuato  a  portare  le  sigarette  a  María,  ogni volta che aveva
    potuto,  e a risolverle alcuni bisogni imprevisti,  fino al giorno  in
    cui  si era ritrovata davanti le macerie dell'ospedale,  demolito come
    un brutto ricordo  di  quei  tempi  ingrati.  María  le  era  sembrata
    lucidissima  l'ultima volta che l'aveva vista,  un po' in sovrappeso e
    contenta della pace del chiostro.  Quel giorno le aveva portato  anche
    il  gatto  perché  ormai  erano  finiti  i  soldi che Saturno le aveva
    lasciato per dargli da mangiare.

    aprile 1978.








    Spaventi di agosto.

    Arrivammo ad Arezzo un po' prima di mezzogiorno,  e impiegammo più  di
    due   ore   cercando  il  castello  rinascimentale  che  lo  scrittore
    venezuelano  Miguel  Otero  Silva  aveva  comprato   in   quell'angolo
    idilliaco  della  campagna  toscana.  Era  una  domenica all'inizio di
    agosto, ardente e chiassosa,  e non era facile trovare una persona che
    sapesse qualcosa nelle vie accalcate di turisti.  Dopo molti tentativi
    inutili  tornammo  all'automobile,  abbandonammo  la  città  lungo  un
    sentiero di cipressi senza indicazioni stradali, e una vecchia pastora
    di oche ci indicò con precisione dove si trovava il castello. Prima di
    salutarci  domandò  se  pensavamo di pernottare lì,  e le rispondemmo,
    come già avevamo previsto, che vi avremmo solo pranzato.
    «Meno male» disse lei «perché in quel posto c'e da spaventarsi.»
    Mia moglie e io,  che non crediamo  nei  fantasmi  a  mezzogiorno,  ci
    burlammo della sua credulità.  Ma i nostri due figli,  di nove e sette
    anni, furono felici all'idea di conoscere un fantasma in carne e ossa.
    Miguel Otero Silva,  che oltre a  essere  un  buon  scrittore  era  un
    anfitrione  splendido  e un mangiatore raffinato,  ci aspettava con un
    pranzo impossibile da dimenticare.  Siccome eravamo in ritardo non  si
    ebbe  il  tempo di conoscere l'interno del castello prima di sederci a
    tavola,  ma il suo aspetto da fuori non aveva nulla di  spaventoso,  e
    qualsiasi  inquietudine  svaniva davanti al panorama della città dalla
    terrazza fiorita in cui stavamo pranzando.  Era difficile credere  che
    in  quella  collina di case aggrappolate,  dove c'era posto appena per
    novantamila persone,  fossero nati tanti  uomini  di  genio  duraturo.
    Tuttavia,  Miguel  Otero Silva ci disse col suo umorismo caraibico che
    nessuno di quegli innumerevoli era il più insigne di Arezzo.
    «Il più grande» sentenziò «è stato Ludovico.»
    Così,  senza cognome: Ludovico,  il grande signore delle arti e  della
    guerra, che aveva costruito quel castello della sua sventura, e di cui
    Miguel  ci  parlò  durante  tutto  il pranzo.  Ci parlò del suo potere
    immenso,  del suo amore contrastato e della sua  morte  terribile.  Ci
    raccontò  come  in  un momento di follia del cuore avesse pugnalato la
    sua dama nel letto in cui si  erano  appena  amati,  e  poi  si  fosse
    sguinzagliato  contro  i  suoi  feroci  cani  da  guerra  che  a morsi
    l'avevano fatto a pezzi. Ci assicurò, in tutta serietà,  che a partire
    da  mezzanotte  lo  spettro  di Ludovico si aggirava per la casa nelle
    tenebre cercando di raggiungere la quiete nel suo purgatorio d'amore.
    Il castello, in realtà, era immenso e cupo. Ma in pieno giorno, con lo
    stomaco pieno e il cuore allegro,  il racconto di Miguel  poteva  solo
    sembrare  uno  scherzo  come  tanti  altri  dei suoi per divertire gli
    invitati.  Le ottantadue stanze che attraversammo senza paure dopo  la
    siesta,  avevano  subito  ogni  sorta  di  modificazioni  da parte dei
    successivi  proprietari.  Miguel  aveva  restaurato  completamente  il
    pianterreno  e  si era fatto costruire una camera da letto moderna con
    pavimento di marmo e impianti per la  sauna  e  la  ginnastica,  e  il
    terrazzo di fiori intensi dove avevamo pranzato. Il secondo piano, che
    era stato il più usato nel corso dei secoli, era una sequela di stanze
    prive di carattere, con mobili di diverse epoche abbandonati alla loro
    sorte.  Ma all'ultimo c'era ancora una stanza intatta dove il tempo si
    era dimenticato di trascorrere. Era la camera da letto di Ludovico.
    Fu un istante magico.  C'erano l'alcova con le tende ricamate  a  fili
    d'oro,   e   il   copriletto   con   prodigi  di  passamaneria  ancora
    accartocciato dal sangue secco  dell'amante  sacrificata.  C'erano  il
    camino  con  le  ceneri gelide e l'ultimo ciocco di legno tramutato in
    pietra,  l'armadio con le sue armi ben lustrate,  e il ritratto a olio
    del  cavaliere  pensoso  in  una cornice d'oro,  dipinto da un qualche
    maestro fiorentino che non aveva avuto la fortuna di  sopravvivere  al
    suo tempo. Tuttavia, quel che più mi impressionò fu l'odore di fragole
    fresche  che  stagnava  senza  spiegazione  possibile  nell'aria della
    camera da letto.
    Le giornate dell'estate sono  lunghe  e  parsimoniose  in  Toscana,  e
    l'orizzonte  rimane  immobile  fino alle nove di sera.  Quando si ebbe
    finito di visitare il castello erano  passate  le  cinque,  ma  Miguel
    insistette  per  portarci  a  vedere  gli  affreschi  di  Piero  della
    Francesca nella chiesa  di  San  Francesco,  poi  prendemmo  un  caffè
    chiacchierando  sotto  i  pergolati della piazza,  e quando tornammo a
    ritirare i bagagli trovammo la cena  servita.  Sicché  ci  fermammo  a
    cenare.
    Mentre  così  facevamo,  sotto  un cielo malva con una sola stella,  i
    bambini accesero alcune torce in cucina,  e andarono  a  esplorare  le
    tenebre  ai  piani superiori.  Dalla tavola sentivamo le loro corse di
    cavalli selvaggi per le scale, i lamenti delle porte,  le grida felici
    che chiamavano Ludovico nelle stanze tenebrose. Fu a loro che venne la
    brutta  idea di restar lì a dormire.  Miguel Otero Silva li spalleggiò
    tutto contento, e a noi mancò il coraggio civile di rifiutare.
    Contrariamente a quanto temevo, dormimmo benissimo, mia moglie e io in
    una stanza al  pianterreno  e  i  miei  figli  nella  camera  attigua.
    Entrambe  erano  state  modernizzate e non avevano nulla di tenebroso.
    Mentre cercavo di prendere sonno  contai  i  dodici  rintocchi  vigili
    dell'orologio  a  pendolo  del  salone,   e  mi  ricordai  dell'avviso
    impaurito della pastora di  oche.  Ma  eravamo  così  stanchi  che  ci
    addormentammo in fretta,  in un sonno denso e continuo,  e mi svegliai
    dopo le sette con un sole splendido fra i rampicanti  della  finestra.
    Accanto  a  me,  mia  moglie navigava nel mare quieto degli innocenti.
    «Che stupidaggine» mi dissi,  «che la gente  continui  a  credere  nei
    fantasmi  in quest'epoca.» Solo allora mi fece rabbrividire l'odore di
    fragole fresche,  e vidi il caminetto con le ceneri fredde e  l'ultimo
    ciocco tramutato in pietra,  e il ritratto del cavaliere triste che ci
    guardava da tre secoli addietro nella cornice  d'oro.  Perché  non  ci
    trovavamo  nell'alcova  al pianterreno dove ci eravamo addormentati la
    notte prima,  ma nella camera di Ludovico,  sotto il baldacchino e  le
    tende  polverose e le lenzuola fradicie di sangue ancora caldo del suo
    letto di maledizione.

    ottobre 1980.













    Maria dos Prazeres.

    L'uomo delle  pompe  funebri  arrivo  così  puntuale,  che  Maria  dos
    Prazeres era ancora in vestaglia e con la testa piena di bigodini,  ed
    ebbe appena il tempo di infilarsi una rosa rossa dietro l'orecchio per
    non sembrare indesiderabile come si sentiva.  Si dispiacque ancor  più
    delle sue condizioni quando aprì la porta e vide che non era un notaio
    lugubre, come lei pensava dovessero essere i commercianti della morte,
    ma  un  giovanotto  timido  con una giacca a quadri e una cravatta con
    uccelli colorati. Non portava soprabito, malgrado la primavera incerta
    di Barcellona,  la cui pioviggine di venti sbiechi  la  rendeva  quasi
    sempre  meno tollerabile dell'inverno.  Maria dos Prazeres,  che aveva
    accolto tanti uomini a ogni ora,  si sentì imbarazzata come pochissime
    altre  volte.  Aveva  appena compiuto settantasei anni ed era convinta
    che sarebbe morta prima di Natale,  e  anche  così  fu  sul  punto  di
    chiudere  la porta e chiedere al venditore di sepolture che aspettasse
    un momento mentre si vestiva per accoglierlo come si meritava.  Ma poi
    pensò  che  si  sarebbe  gelato  lì  sul pianerottolo buio,  e lo fece
    accomodare.
    «Mi scusi per questo aspetto da pipistrello» disse,  «ma vivo da oltre
    cinquant'anni in Catalogna, ed è la prima volta che una persona arriva
    all'ora convenuta.»
    Parlava  un catalano perfetto con una purezza un po' arcaica,  sebbene
    si notasse ancora la musica del suo portoghese  dimenticato.  Malgrado
    gli  anni  e  con  i  riccioli  di fil di ferro era sempre una mulatta
    snella e vivace,  dai capelli duri e dagli occhi gialli  e  feroci,  e
    ormai  da  molto  tempo aveva perso la compassione per gli uomini.  Il
    venditore,  ancora abbagliato dalla luce della  via,  non  fece  alcun
    commento  ma  si pulì la suola delle scarpe sullo stuoino di iuta e le
    baciò la mano con una riverenza.
    «Sei un uomo come quelli dei miei tempi» disse Maria dos Prazeres  con
    una sghignazzata di grandine. «Accomodati.»
    Pur  essendo  nuovo del mestiere,  lui lo conosceva abbastanza bene da
    non aspettarsi quell'accoglienza festosa  alle  otto  del  mattino,  e
    tanto  meno  da  parte  di  una vecchia senza misericordia che a prima
    vista gli sembrò una pazza scappata dalle Americhe. Sicché rimase a un
    passo dalla porta senza sapere cosa dire,  mentre Maria  dos  Prazeres
    scostava  le  pesanti  tende di felpa alle finestre.  La tenue luce di
    aprile illuminò appena lo spazio meticoloso del salotto  che  sembrava
    piuttosto  la bottega di un antiquario.  Erano cose di uso quotidiano,
    né una di più né una di meno,  e ognuna sembrava messa  al  suo  posto
    naturale,  e  con  un  gusto  così  sicuro che sarebbe stato difficile
    trovare un'altra casa meglio arredata persino in una  città  antica  e
    segreta come Barcellona.
    «Mi scusi» disse. «Ho sbagliato porta.»
    «Così fosse» disse lei, «ma la morte non si sbaglia.»
    Il  venditore  aprì sulla tavola della sala da pranzo un grafico dalle
    molte piegature come una carta marittima con pezzi di colori diversi e
    numerose croci e cifre di tutti i colori.  Maria dos Prazeres capì che
    era  la  mappa completa dell'immenso cimitero di Montjuich,  e ricordò
    con  un  orrore  antichissimo  il  camposanto  di  Manaus  sotto   gli
    acquazzoni di ottobre,  dove sguazzavano i tapiri fra tombe senza nome
    e mausolei di avventurieri con vetrate fiorentine. Una mattina, quando
    era molto  piccola,  il  Rio  delle  Amazzoni  in  piena  era  apparso
    trasformato in una palude nauseabonda, e lei aveva visto le bare rotte
    che  galleggiavano  nel  cortile  di  casa  sua con pezzi di stracci e
    capelli di morti nelle fessure. Quel ricordo era il motivo che l'aveva
    indotta a scegliere la collina di Montjuich per riposare  in  pace,  e
    non il piccolo cimitero di San Gervasio, così vicino e familiare.
    «Voglio un posto dove l'acqua non possa mai arrivare» disse.
    «Eccolo  qui»  disse il venditore,  indicando il luogo sulla mappa con
    una bacchetta allungabile che portava in tasca come  una  stilografica
    di acciaio. «Nessun mare può salire tanto.»
    Lei si orientò sulla scacchiera colorata fino a rintracciare l'accesso
    principale,  dove si trovavano le tre tombe attigue, identiche e senza
    nome, nelle quali giacevano Buenaventura Durruti e altri due dirigenti
    anarchici morti nella Guerra Civile.  Ogni notte qualcuno  scriveva  i
    nomi sulle lapidi in bianco. Li scrivevano con lapis, con pittura, con
    carbone, con matita per gli occhi o smalto per le unghie, con tutte le
    lettere   e  nel  giusto  ordine,   e  ogni  mattina  i  guardiani  li
    cancellavano affinché nessuno sapesse chi c'era sotto  i  marmi  nudi.
    Maria  dos Prazeres aveva assistito alla sepoltura di Durruti,  la più
    triste e tumultuosa fra quante ci fossero mai state  a  Barcellona,  e
    voleva  riposare  vicino  alla  sua  tomba.   Ma  non  ce  n'erano  di
    disponibili nel vasto cimitero sovraffollato.  Sicché  si  rassegnò  a
    quel che era possibile scegliere.  «A patto» disse «che non mi mettano
    in uno di quei loculi a cinque anni dove si sta come alla posta.» Poi,
    ricordando d'improvviso il requisito essenziale, concluse:
    «E soprattutto, che mi seppelliscano coricata.»
    Infatti,  in risposta alla chiassosa promozione di  tombe  vendute  in
    anticipo, circolava la voce che si stavano facendo sepolture verticali
    per risparmiare spazio.  Il venditore spiegò,  con la precisione di un
    discorso imparato a memoria, e spesso ripetuto, che quella diceria era
    una frottola perversa delle imprese di pompe funebri tradizionali  per
    screditare la nuova promozione delle tombe a rate.  Mentre lo spiegava
    bussarono alla porta con tre colpetti discreti,  e lui fece una  pausa
    incerta, ma Maria dos Prazeres gli fece segno di proseguire.
    «Non si preoccupi» disse a voce bassissima. «E' il Noi.»
    Il  venditore  riprese  il  filo,  e Maria dos Prazeres fu soddisfatta
    della spiegazione.  Tuttavia,  prima di aprire la porta volle fare una
    sintesi  conclusiva  di  un pensiero che era maturato nel suo cuore da
    molti  anni,  e  persino  nei  suoi  dettagli  più  intimi,   dopo  la
    leggendaria piena di Manaus.
    «Quel  che  intendo»  disse  «è  che  cerco  un  posto dove possa star
    coricata sotto terra,  senza rischi di inondazioni e  se  è  possibile
    all'ombra  degli  alberi d'estate,  e da dove non mi tirino fuori dopo
    qualche tempo per buttarmi nella spazzatura.»
    Aprì  la  porta  di  ingresso  ed  entrò  un  barboncino  fradicio  di
    pioviggine, e con un aspetto da manigoldo che nulla aveva a che vedere
    col  resto  della  casa.   Tornava  dalla  passeggiata  mattutina  nel
    vicinato,  ed entrando ebbe un impeto di giubilo.  Saltò sulla  tavola
    abbaiando  insensatamente  e  fu  sul  punto  di rovinare la mappa del
    cimitero con le zampe sporche di fango.  Un solo sguardo della padrona
    bastò a moderare i suoi slanci.
    «Noi!» gli disse senza gridare. «"Baixa d'açi"!»
    L'animale  si  contrasse,  la guardò spaventato,  e un paio di lacrime
    nette gli scivolarono giù per il muso. Allora Maria dos Prazeres tornò
    a occuparsi del venditore, e lo vide perplesso.
    «"Collons"!» esclamò lui. «Ha pianto!»
    «E' così agitato perché c'è qualcuno qui a quest'ora» lo  scusò  Maria
    dos  Prazeres  a bassa voce.  «In genere,  entra in casa con più garbo
    degli uomini. Tranne te, come ho potuto vedere.»
    «Ma ha pianto,  cazzo!» ripeté il venditore,  e subito si  rese  conto
    della  sua  grossolanità,  e si scusò arrossendo: «Mi perdoni,  ma una
    cosa del genere non l'avevo mai vista neppure al cinema».
    «Tutti i cani possono farlo se glielo si insegna» disse lei. «Il fatto
    è che i padroni passano la vita a educarli con abitudini che li  fanno
    soffrire, come mangiare nei piatti o fare i loro bisogni a certe ore e
    sempre nello stesso posto. E invece non gli insegnano le cose naturali
    che a loro piacciono, come ridere e piangere. Dove eravamo?»
    Mancava molto poco.  Maria dos Prazeres dovette rassegnarsi anche alle
    estati senza alberi, perché gli unici che c'erano nel cimitero avevano
    l'ombra riservata ai gerarchi del regime.  Invece le condizioni  e  le
    clausole del contratto erano superflue, perché lei voleva godere dello
    sconto relativo al pagamento immediato e in contanti.
    Solo  quando ebbero finito,  e mentre riponeva i fogli nella cartella,
    il venditore esaminò la casa con uno sguardo consapevole e  rabbrividì
    al  respiro  magico  della  sua  bellezza.  Guardò  di nuovo Maria dos
    Prazeres come per la prima volta.
    «Posso farle una domanda indiscreta?» domandò lui.
    Lei lo guidò verso la porta.
    «Naturalmente» gli disse, «purché non mi domandi l'età.»
    «Ho la mania di indovinare il mestiere delle persone dalle cose che ci
    sono a casa loro, pero qui non ci riesco» disse lui. «Lei cosa fa?»
    Maria dos Prazeres gli rispose morta dal ridere:
    «Faccio la puttana,  giovanotto.  O non lo si nota più?» Il  venditore
    arrossì.
    «Mi dispiace.»
    «Semmai doveva dispiacere a me» disse lei,  prendendolo per un braccio
    e così impedendo che sbattesse contro la porta.  «E sta' attento!  Non
    romperti la zucca prima di avermi seppellita per bene.»
    Non  appena  ebbe  chiuso  la  porta,  prese  il cagnolino e si mise a
    vezzeggiarlo,  e si unì  con  la  sua  bella  voce  africana  ai  cori
    infantili  che  in  quel  momento  si  cominciarono a udire nell'asilo
    accanto.  Tre mesi prima aveva avuto in sogno la rivelazione che stava
    per  morire,  e  da  allora si era sentita più legata che mai a quella
    creatura della sua  solitudine.  Aveva  previsto  con  tanta  cura  la
    spartizione postuma delle sue cose e il destino del suo corpo,  che in
    quel momento avrebbe potuto morire senza disturbare  nessuno.  Si  era
    ritirata di sua volontà con una fortuna accumulata pietra su pietra ma
    senza  sacrifici  troppo  amari,  e  aveva  scelto come ultimo rifugio
    l'antichissimo  e  nobilissimo  paese  di   Gracia,   ormai   digerito
    dall'espansione della città. Aveva comprato quell'ammezzato in rovina,
    sempre  odoroso  di  aringhe  affumicate,  le  cui  pareti corrose dal
    salnitro conservavano ancora i segni di  qualche  combattimento  senza
    gloria.  Non c'era portinaio, e alle scale umide e tenebrose mancavano
    alcuni gradini, sebbene tutti gli appartamenti fossero occupati. Maria
    dos Prazeres aveva fatto risistemare il bagno e la cucina,  tappezzare
    le pareti con stoffe dai colori allegri e mettere vetri ugnati e tende
    di velluto alle finestre.  Infine aveva portato i mobili più belli, le
    suppellettili di servizio e di ornamento e i bauli di sete e  broccati
    che i fascisti predavano dalle dimore abbandonate dai repubblicani nel
    panico  della  disfatta,  e che lei aveva comprato a poco a poco,  per
    molti anni,  a prezzi d'occasione e in aste segrete.  L'unico  vincolo
    che  le  era  rimasto  col  passato  era  la sua amicizia col conte di
    Cardona,  che aveva continuato a visitarla l'ultimo  venerdì  di  ogni
    mese  per cenare con lei e poi fare un languido amore da dopocena.  Ma
    pure quell'amicizia della gioventù era rimasta avvolta da discrezione,
    perché il conte lasciava l'automobile con i suoi stemmi araldici a una
    distanza  più  che  prudente,  e  raggiungeva  l'ammezzato  camminando
    nell'ombra,  per proteggere l'onore di lei come il proprio.  Maria dos
    Prazeres non conosceva  nessuno  nell'edificio,  tranne  quelli  della
    porta di fronte, dove abitava da poco una coppia molto giovane con una
    bambina  di nove anni.  Le sembrava incredibile,  ma era vero,  di non
    essersi mai imbattuta in chicchessia per le scale.
    Tuttavia,  la spartizione della sua eredità le dimostrò che si trovava
    più  inserita  di  quanto  lei  stessa  credesse in quella comunità di
    catalani chiusi il cui onore nazionale si  basava  sul  pudore.  Aveva
    spartito  persino le carabattole più insignificanti fra le persone che
    più stavano vicine al suo cuore,  che poi erano quelle che più stavano
    vicine  a  casa  sua.  Alla fine non si sentiva molto sicura di essere
    stata giusta, ma era invece certa di non avere dimenticato nessuno che
    non se lo meritasse.  Fu un testamento preparato con tanto rigore  che
    il notaio di Calle del Arbol,  che si vantava di averne viste di tutti
    i colori,  non riuscì a credere ai suoi occhi quando la vide dettare a
    memoria  ai suoi amanuensi la lista minuziosa dei suoi beni,  col nome
    preciso di ogni cosa in quel catalano medievale,  e la lista  completa
    degli  eredi con i loro mestieri e indirizzi e il posto che occupavano
    nel suo cuore.
    Dopo la visita del venditore di sepolture finì per trasformarsi in uno
    dei numerosi visitatori domenicali del  cimitero.  Al  pari  dei  suoi
    vicini di tomba seminò fiori di quattro stagioni nei vasi,  innaffiava
    l'erba novella e la pareggiava  con  le  forbici  per  potare  fino  a
    lasciarla  come  i tappeti del municipio,  e si familiarizzò tanto col
    posto che finì per non capire come all'inizio avesse potuto  sembrarle
    così desolato. Durante la sua prima visita, il cuore le era sobbalzato
    vedendo  accanto  all'ingresso le tre tombe senza nome,  ma non si era
    neppure fermata a guardarle,  perché a pochi passi  da  lei  c'era  il
    guardiano  insonne.  Ma  la  terza  domenica  approfittò  di  una  sua
    distrazione per concretizzare uno dei suoi sogni  più  grandi,  e  col
    rossetto scrisse sulla prima lapide lavata dalla pioggia: Durruti.  In
    seguito,  ogni volta che le fu possibile lo rifece,  talvolta  su  una
    tomba,  su  due  o su tutt'e tre,  e sempre col polso fermo e il cuore
    eccitato dalla nostalgia.
    Una domenica di fine settembre assistette alla prima  sepoltura  sulla
    collina.  Tre  settimane  dopo,  in  un  pomeriggio  di  venti gelidi,
    seppellirono una giovane sposata da poco nella tomba vicino alla  sua.
    Alla fine dell'anno,  sette appezzamenti erano occupati,  ma l'inverno
    effimero trascorse senza turbarla.  Non sentiva alcun malessere,  e  a
    mano  a  mano  che aumentava il caldo ed entrava il rumore torrenziale
    della vita attraverso le finestre aperte  si  sentiva  sempre  più  in
    forze  per  sopravvivere  agli  enigmi  dei  suoi  sogni.  Il conte di
    Cardona, che passava in montagna i mesi più caldi, la trovò al ritorno
    più  attraente  ancora  che  nella  sua  straordinaria  gioventù   dei
    cinquant'anni.
    Dopo molti tentativi frustrati,  Maria dos Prazeres ottenne che il Noi
    distinguesse la sua tomba nell'ampia collina di  tombe  tutte  uguali.
    Poi  si  adoperò  a  insegnargli  a  piangere sopra la sepoltura vuota
    affinché continuasse a farlo per abitudine dopo la sua morte. Lo portò
    più volte a piedi da casa fino  al  cimitero,  indicandogli  punti  di
    riferimento  per  fargli  memorizzare  il  percorso dell'autobus delle
    Ramblas,  finché non lo sentì abbastanza addestrato  per  mandarlo  da
    solo.
    La domenica della prova finale,  alle tre del pomeriggio, gli tolse il
    cappottino primaverile,  in parte perché l'estate era imminente  e  in
    parte  perché attirasse meno l'attenzione,  e lo lasciò fare.  Lo vide
    allontanarsi lungo il marciapiede in ombra con un trotto  lieve  e  il
    culetto  magro  e  triste  sotto la coda agitata,  e riuscì a stento a
    reprimere la voglia di piangere,  per lei e per lui,  e  per  tanti  e
    tanto  amari  anni  di  illusioni comuni,  finché non lo vide svoltare
    verso il mare all'angolo di Calle Mayor. Quindici minuti dopo lei salì
    sull'autobus delle Ramblas nella vicina Plaza de Lesseps,  tentando di
    vederlo  senza  essere  vista  dal finestrino e infatti lo vide tra le
    frotte di bambini domenicali, lontano e serio, in attesa che scattasse
    il semaforo del Paseo de Gracia.
    «Dio mio» sospirò. «Com'è solo!»
    Dovette aspettarlo quasi due ore sotto il sole brutale  di  Montjuich.
    Salutò  diverse  persone  afflitte di altre domeniche meno memorabili,
    pur riconoscendole appena,  perché era trascorso così tanto  tempo  da
    quando le aveva viste per la prima volta che ormai non indossavano più
    abiti da lutto, né piangevano, e disponevano i fiori sulle tombe senza
    pensare ai loro morti.  Di lì a poco, quando tutti se ne furono andati
    via,  udì un bramito lugubre che spaventò i gabbiani,  e vide sul mare
    immenso  un  transatlantico  bianco con la bandiera del Brasile,  e si
    augurò con tutta l'anima che le portasse una lettera di  qualcuno  che
    fosse  morto  per lei nel carcere di Pernambuco.  Poco dopo le cinque,
    con dodici minuti di anticipo, comparve il Noi sulla collina, sbavando
    per la fatica e il caldo,  ma con un'aria da  bambino  trionfante.  In
    quell'istante,  Maria  dos Prazeres superò il terrore di non avere chi
    piangesse sulla sua tomba.
    Fu nell'autunno successivo che comincio a notare segni funesti che non
    riusciva a  decifrare,  ma  che  le  accrebbero  il  peso  del  cuore.
    Ricominciò  a  prendere  il  caffè sotto le acacie dorate di Plaza del
    Reloj col cappotto dal collo di code di volpi e il  cappellino  ornato
    di fiori finti, così antico che era tornato di moda. Acuì l'istinto.
    Cercando  di  spiegarsi  la  propria  ansia  spiò le chiacchiere delle
    venditrici di uccelli delle Ramblas,  i sussurri degli uomini  davanti
    alle  bancarelle  di  libri che per la prima volta dopo molti anni non
    parlavano di calcio,  i profondi silenzi dei mutilati  di  guerra  che
    spargevano  briciole  di  pane  alle  colombe,  e  ovunque trovò segni
    inequivocabili della morte.  A Natale si accesero le luci colorate fra
    le  acacie,  e  uscivano musiche e voci di giubilo dai balconi,  e una
    folla di turisti estranei al nostro destino invase i caffè all'aperto,
    ma anche dentro la festa si sentiva la stessa  tensione  repressa  che
    aveva  preceduto  i  tempi  in  cui gli anarchici si erano impadroniti
    delle vie. Maria dos Prazeres, che aveva vissuto quell'epoca di grandi
    passioni, non riusciva a dominare l'inquietudine, e per la prima volta
    fu svegliata nel bel mezzo del  sonno  da  artigliate  di  paura.  Una
    notte,  agenti  di  Sicurezza  dello  Stato  assassinarono  a colpi di
    pistola davanti alla sua finestra uno studente che aveva  scritto  con
    un grosso pennello sul muro: "Visca Catalunya lliure".
    «Dio  mio»  si  disse spaventata,  «è come se tutto stesse morendo con
    me!»
    Aveva provato un'ansia simile solo  da  molto  piccola  a  Manaus,  un
    minuto prima dell'alba, quando i rumori numerosi della notte cessavano
    d'improvviso,  le acque si fermavano,  il tempo titubava, e la foresta
    amazzonica sprofondava in  un  silenzio  abissale  che  poteva  essere
    uguale   solo   a   quello   della  morte.   In  mezzo  alla  tensione
    irresistibile,  l'ultimo venerdì di aprile,  come sempre,  il conte di
    Cardona si recò a cena a casa sua.
    La  visita  era  diventata un rito.  Il conte arrivava puntuale fra le
    sette e le nove di sera con  una  bottiglia  di  champagne  del  paese
    avvolta nel giornale del pomeriggio affinché la si notasse di meno,  e
    una scatola di tartufi  farciti.  Maria  dos  Prazeres  gli  preparava
    cannelloni  gratinati  e  un  pollo  tenero nel suo sugo,  che erano i
    piatti preferiti dei catalani di  rango  dei  suoi  bei  tempi,  e  un
    vassoio assortito di frutta di stagione. Mentre lei cucinava, il conte
    ascoltava  sul  grammofono  frammenti  di  opere  italiane in versioni
    storiche, bevendo a sorsi lenti un bicchierino di porto che gli durava
    sino alla fine dei dischi.
    Dopo la cena,  lunga e ben inframmezzata da  chiacchiere,  facevano  a
    memoria  un  amore  sedentario  che  lasciava a entrambi un residuo di
    disastro.  Prima di andarsene,  sempre impaurito dall'imminenza  della
    mezzanotte,   il   conte   depositava  venticinque  pesetas  sotto  il
    portacenere della camera da letto. Era il prezzo di Maria dos Prazeres
    quando l'aveva conosciuta in un albergo a ore  del  Paralelo,  ed  era
    l'unica cosa che la ruggine del tempo avesse lasciato intatta.
    Nessuno   dei   due   si   era   mai  domandato  su  cosa  si  basasse
    quell'amicizia.  Maria dos Prazeres gli era debitrice di certi  favori
    facili.  Lui  le  dava  consigli  opportuni  per  il buon uso dei suoi
    risparmi,  le aveva insegnato a discernere il valore reale  delle  sue
    reliquie,  e  il modo per conservarle senza che si scoprisse che erano
    cose rubate.  Ma soprattutto,  era stato lui a indicarle la via di una
    vecchiaia  onesta nel quartiere di Gracia,  quando nel suo bordello di
    tutta la vita l'avevano dichiarata troppo frusta per i gusti  moderni,
    e  avevano  voluto  mandarla in una casa di pensionate clandestine che
    per cinque pesetas insegnavano ai bambini a far l'amore.  Lei,  a  sua
    volta,  aveva  raccontato  al  conte  che  sua madre l'aveva venduta a
    quattordici anni nel porto di Manaus,  e che il primo ufficiale di una
    nave  turca  l'aveva  posseduta  senza  pietà  durante  la  traversata
    dell'Atlantico, e poi l'aveva abbandonata senza soldi,  senza lingua e
    senza  nome,  nella  palude  di  luci  del  Paralelo.  Entrambi  erano
    consapevoli di avere così poche cose in comune che  mai  si  sentivano
    soli  come  quando  stavano  insieme,  ma  nessuno dei due aveva osato
    sciupare il fascino  dell'abitudine.  Ebbero  bisogno  di  un'emozione
    nazionale  per  rendersi  conto,  entrambi  al contempo,  di quanto si
    fossero odiati, e con quale tenerezza, per tanti anni.
    Fu un'esplosione.  Il conte di  Cardona  stava  ascoltando  il  duetto
    d'amore  della "Bohème",  cantato da Licia Albanese e Beniamino Gigli,
    quando lo colse una raffica casuale  delle  notizie  radiofoniche  che
    Maria dos Prazeres ascoltava in cucina.  Si avvicinò in punta di piedi
    e pure lui ascoltò. Il generale Francisco Franco,  dittatore eterno di
    Spagna, si era assunto la responsabilità di decidere il destino finale
    di  tre  separatisti baschi che erano appena stati condannati a morte.
    Il conte cacciò un respiro di sollievo.
    «Allora li fucileranno senza scampo» disse,  «perché il Caudillo è  un
    uomo giusto.»
    Maria dos Prazeres fissò su di lui gli ardenti occhi di cobra reale, e
    vide le sue pupille senza passione dietro gli occhiali d'oro,  i denti
    di animale da preda, le mani ibride di bestiaccia abituata all'umidità
    e alle tenebre. Così com'era.
    «Prega Iddio che non accada» disse,  «perché basta che ne fucilino uno
    solo e ti metterò il veleno nella minestra.»
    Il conte si spaventò.
    «E perché mai?»
    «Perché anch'io sono una puttana giusta.»
    Il  conte  di  Cardona  non  tornò  più,  e Maria dos Prazeres ebbe la
    certezza che l'ultimo ciclo della sua vita si era chiuso.  Fino a poco
    prima,  infatti,  si  indignava  quando  le  cedevano  il  posto sugli
    autobus, quando la prendevano per il braccio e l'aiutavano a salire le
    scale,  però aveva finito non solo per accettarlo ma  addirittura  per
    desiderarlo  come un bisogno detestabile.  Allora fece fare una lapide
    da anarchico,  senza nome né date,  e prese a dormire senza tirare  il
    chiavistello della porta affinché il Noi potesse uscire ad avvisare se
    lei fosse morta nel sonno.
    Una domenica,  entrando in casa di ritorno dal cimitero,  incontrò sul
    pianerottolo delle scale la bambina che abitava  nell'appartamento  di
    fronte.  L'accompagnò per diversi isolati,  parlandole di tutto con un
    candore da nonna,  mentre la guardava giocare col  Noi  quasi  fossero
    vecchi amici.  In Plaza del Diamante, come aveva previsto, le offrì un
    gelato.
    «Ti piacciono i cani?» le domandò.
    «Tantissimo» disse la bambina.
    Allora Maria dos Prazeres le fece la  proposta  che  aveva  pronta  da
    molto tempo.
    «Se  dovesse capitarmi qualcosa,  prenditi cura del Noi» le disse «con
    l'unica condizione che lo lasci libero la domenica senza  preoccuparti
    di nulla. Saprà lui quel che fa.»
    La bambina fu felice.  Maria dos Prazeres, a sua volta, rincasò con la
    gioia di avere vissuto un sogno  maturato  per  anni  nel  suo  cuore.
    Tuttavia,  non  fu  per la stanchezza della vecchiaia né per l'indugio
    della morte che quel sogno non si avverò. Non fu neppure una decisione
    propria.  La vita l'aveva presa per lei in  un  pomeriggio  gelido  di
    novembre  in  cui si scatenò un temporale improvviso mentre usciva dal
    cimitero.  Aveva scritto i nomi sulle tre lapidi e  scendeva  a  piedi
    verso  la  fermata  degli autobus quando si ritrovò fradicia da capo a
    piedi ai primi scrosci di pioggia.  Ebbe appena il tempo di  ripararsi
    sotto  i  portici  di  un  quartiere  deserto che sembrava di un'altra
    città, con botteghe in rovina e fabbriche polverose, ed enormi furgoni
    da carico che rendevano più  spaventoso  lo  strepito  del  temporale.
    Mentre cercava di scaldare col suo corpo il cagnolino inzuppato, Maria
    dos  Prazeres vedeva passare gli autobus pieni,  vedeva passare i taxi
    vuoti con la bandierina spenta, ma nessuno prestava attenzione ai suoi
    segni da naufrago.  D'improvviso,  quando ormai  sembrava  impossibile
    persino un miracolo, un'automobile sontuosa color acciaio crepuscolare
    passò  quasi senza rumore nella strada inondata,  si fermò bruscamente
    all'angolo e fece marcia indietro fin dove stava lei.  Il vetro  scese
    per un soffio magico, e l'autista le propose un passaggio.
    «Vado  molto  lontano» disse Maria dos Prazeres con sincerità.  «Ma mi
    farebbe un grosso piacere se mi avvicinasse un po'.»
    «Mi dica dove va» insistette lui.
    «A Gracia» disse lei.
    La portiera si aprì senza essere toccata.
    «E' la mia direzione» disse lui. «Salga.»
    Nell'interno odoroso di medicina refrigerata, la pioggia si tramutò in
    un contrattempo irreale, la città cambiò colore,  e lei si sentì in un
    mondo  estraneo  e  felice  dove  tutto era già risolto.  L'autista si
    faceva strada attraverso il disordine del traffico  con  una  fluidità
    che aveva qualcosa della magia. Maria dos Prazeres era intimidita, non
    solo  dalla  propria  miseria  ma  anche  da  quella  del cagnolino di
    squallore che le dormiva in grembo.
    «Questo è  un  transatlantico»  disse,  perché  sentì  di  dover  dire
    qualcosa  ammodo.  «Non  avevo  mai visto nulla di simile,  neppure in
    sogno.»
    «In realtà, l'unica cosa brutta che ha è che non è mia» disse lui,  in
    un  catalano  difficile,  e  dopo  una pausa aggiunse in spagnolo: «Lo
    stipendio di tutta la vita non mi basterebbe per comprarla».
    «Me lo immagino» sospirò lei.
    Lo scrutò con la coda dell'occhio,  illuminato di verde  dal  chiarore
    del  quadro  dei comandi,  e vide che era quasi un adolescente,  con i
    capelli corti e ricci,  e un profilo da bronzo romano.  Pensò che  non
    era bello, ma che aveva un fascino diverso, che gli stava benissimo la
    giacca  di  pelle  da  pochi soldi sciupata dall'uso,  e che sua madre
    doveva essere molto felice quando lo sentiva rincasare.  Solo per  via
    delle  mani  da  lavoratore si poteva credere che davvero non fosse il
    proprietario dell'automobile.
    Non parlarono più per tutto il tragitto,  ma anche Maria dos  Prazeres
    si sentì spesso scrutata con la coda dell'occhio e ancora una volta si
    rammaricò di essere viva alla sua età.  Si sentì brutta e pietosa, con
    la sciarpetta che si era messa in  testa  alla  bell'e  meglio  quando
    aveva  cominciato  a piovere,  e lo striminzito cappotto autunnale che
    pensando alla morte non aveva ritenuto opportuno cambiare.
    Quando  arrivarono  al  quartiere  di  Gracia   aveva   cominciato   a
    rasserenarsi,  era notte ed erano accese le luci per le vie. Maria dos
    Prazeres indicò al suo autista che  la  lasciasse  a  un  incrocio  lì
    vicino,  ma lui insistette per portarla fin davanti a casa, e non solo
    lo fece ma parcheggiò sul marciapiede affinché potesse scendere  senza
    bagnarsi.  Lei mollò il cagnolino, cercò di uscire dall'automobile con
    tutta la dignità che il corpo le permetteva,  e quando  si  voltò  per
    ringraziare  si ritrovò davanti a uno sguardo d'uomo da rimanere senza
    fiato. Lo resse per un istante,  senza capire bene chi aspettava cosa,
    ne da chi, e allora lui le domandò con voce decisa:
    «Salgo?»
    Maria dos Prazeres si sentì umiliata.
    «La ringrazio molto per il passaggio che mi ha dato» disse, «ma non le
    permetto di prendermi in giro.»
    «Non  ho  alcun  motivo  per  prendere  in giro la gente» disse lui in
    spagnolo con una serietà risoluta. «E tanto meno una donna come lei.»
    Maria dos Prazeres aveva conosciuto molti uomini come quello, ne aveva
    salvati dal suicidio molti altri più audaci ancora, ma nella sua lunga
    vita non aveva mai avuto tanta paura di  decidere.  Lo  udì  insistere
    senza il minimo indizio di mutamento nella voce:
    «Salgo?»
    Lei  si  allontanò  senza chiudere la portiera dell'automobile,  e gli
    rispose in spagnolo per essere sicura che la capisse.
    «Faccia quel che vuole.»
    Entrò nell'atrio illuminato dalla luce obliqua della via,  e  prese  a
    salire la prima rampa di scale con le ginocchia tremule,  soffocata da
    un panico che avrebbe creduto possibile solo nel  momento  di  morire.
    Quando  si  fermò davanti alla porta dell'ammezzato,  rabbrividendo di
    ansia per trovare le chiavi nella tasca,  udì sbattere successivamente
    le  due portiere dell'automobile in strada.  Il Noi,  che si era fatto
    avanti,  tentò di abbaiare.  «Zitto» gli ordinò  con  un  sussurro  da
    agonia. Quasi subito sentì i primi passi sui gradini sgangherati delle
    scale e temette che il cuore le scoppiasse. In una frazione di secondo
    riesaminò  completamente il sogno premonitore che le aveva cambiato la
    vita per tre anni, e capì l'errore della sua interpretazione.
    «Dio mio» si disse spaventata. «Sicché non era la morte!»
    Trovò infine la serratura,  mentre sentiva i passi  decisi  nel  buio,
    mentre  sentiva  il  respiro  crescente  di qualcuno che si avvicinava
    spaventato come lei nel buio,  e allora capì che era valsa la pena  di
    aspettare  tanti  e  tanti  anni,  e di avere sofferto tanto nel buio,
    fosse anche solo per vivere quell'istante.

    maggio 1979.







    Diciassette inglesi avvelenati.

    La prima cosa che notò la signora Prudencia Linero  quando  arrivò  al
    porto  di Napoli,  fu che aveva lo stesso odore del porto di Riohacha.
    Non lo raccontò a  nessuno,  naturalmente,  perché  nessuno  l'avrebbe
    capito su quel transatlantico senile zeppo di italiani di Buenos Aires
    che tornavano in patria per la prima volta dopo la guerra, comunque si
    sentì meno sola, meno spaventata e distante, a settantadue anni di età
    e a diciotto giorni di brutto mare dalla sua gente e dalla sua casa.
    Fin  dall'alba  si  erano  viste  le  luci  di terra.  I passeggeri si
    alzarono più presto del solito,  vestiti con abiti nuovi e  col  cuore
    oppresso dall'incertezza dello sbarco,  sicché quell'ultima domenica a
    bordo sembrò essere davvero l'unica in tutto il  viaggio.  La  signora
    Prudencia  Linero fu una delle pochissime che assistettero alla messa.
    A differenza dei giorni precedenti in cui girava per la nave vestita a
    mezzo lutto,  per sbarcare aveva indossato una tunica grigia  di  tela
    grossolana  col  cordone  di  san  Francesco  alla vita,  e un paio di
    sandali di cuoio grezzo  che  solo  perché  nuovi  non  sembravano  da
    pellegrino.  Era  un  pagamento  anticipato:  aveva  promesso a Dio di
    portare quell'abito talare fino alla morte se le concedeva  la  grazia
    di  potersi  recare  a  Roma  per  vedere il Sommo Pontefice,  e ormai
    considerava la grazia concessa.  Al termine  della  messa  accese  una
    candela  allo  Spirito  Santo  per  il coraggio che le aveva infuso di
    sopportare i temporali dei Caraibi,  e recitò una preghiera per ognuno
    dei  nove  figli e quattordici nipoti che in quel momento la sognavano
    nella notte di venti di Riohacha.
    Quando salì in coperta dopo la  colazione,  la  vita  della  nave  era
    mutata.  I  bagagli stavano ammucchiati nella sala da ballo,  fra ogni
    sorta di oggetti per turisti comprati dagli italiani  nei  mercati  di
    magia  delle  Antille,  e  sul  banco  del  bar  c'era  una scimmia di
    Pernambuco dentro una gabbia di rete di ferro.  Era un mattino radioso
    all'inizio  di  agosto.  Una  domenica  esemplare di quelle estati del
    dopoguerra in cui la luce si comportava come una rivelazione  di  ogni
    giorno,  e la nave enorme si muoveva pianissimo, con ansiti da malato,
    sopra uno stagno diafano.  La fortezza tenebrosa dei  duchi  di  Angiò
    cominciava   appena  a  stagliarsi  all'orizzonte,   ma  i  passeggeri
    affacciati ai parapetti credevano di riconoscere i luoghi familiari, e
    li indicavano senza vederli con certezza gridando di gioia in dialetti
    meridionali.  La signora Prudencia Linero,  che  si  era  fatta  tanti
    vecchi  amici  a bordo,  che aveva badato ai bambini mentre i genitori
    ballavano e che aveva persino cucito un bottone della giubba al  primo
    ufficiale,  li  trovò  d'improvviso  estranei  e  diversi.  Lo spirito
    sociale,  il calore umano che le aveva permesso di  sopravvivere  alle
    prime  nostalgie  nel sopore del tropico,  erano scomparsi.  Gli amori
    eterni d'altomare finivano alla vista del porto.  La signora Prudencia
    Linero, che non conosceva la natura volubile degli italiani, pensò che
    il  male  non  stava nel cuore degli altri ma nel suo,  perché lei era
    l'unica che andava tra la folla che tornava.  Così devono essere tutti
    i  viaggi,  pensò,  sentendo  per  la  prima volta nella vita la fitta
    dell'essere straniera,  mentre contemplava da  bordo  le  vestigia  di
    tanti  mondi  estinti  in fondo all'acqua.  D'improvviso,  una ragazza
    molto bella che le stava accanto la spaventò con un grido di orrore.
    «Mamma mia» disse, indicando il fondo. «Guardate lì.»
    Era un annegato.  La signora  Prudencia  Linero  lo  vide  galleggiare
    supino sul pelo dell'acqua, ed era un uomo maturo e calvo con una rara
    prestanza naturale,  e i suoi occhi aperti e allegri avevano lo stesso
    colore del cielo all'alba. Indossava un abito da sera col panciotto di
    broccato,  scarpe di vernice e una gardenia viva all'occhiello.  Nella
    mano destra aveva un pacchettino cubico avvolto in carta da regalo,  e
    le dita di ferro livido erano avvinghiate al nastro,  l'unica cosa che
    avesse trovato per aggrapparsi nell'istante di morire.
    «Deve  esser caduto da bordo» disse un ufficiale della nave.  «Succede
    spesso d'estate in queste acque.»
    Fu una visione istantanea, perché allora stavano entrando nella baia e
    altri motivi meno lugubri distrassero l'attenzione dei passeggeri.  Ma
    la  signora  Prudencia  Linero  continuò a pensare all'annegato le cui
    falde del frac ondeggiavano nella scia della nave.
    Non appena entrò nella baia, un rimorchiatore decrepito venne incontro
    alla nave e se la portò come per la cavezza fra i relitti di  numerose
    navi   militari   distrutte   durante   la   guerra.   L'acqua   stava
    trasformandosi in olio a mano a mano che la nave si faceva strada  fra
    i relitti arrugginiti,  e il caldo si fece ancora più feroce di quello
    di Riohacha alle due del pomeriggio. Dall'altra parte della strettoia,
    raggiante  nel  sole  delle  undici,  apparve  d'improvviso  la  città
    completa  di palazzi chimerici e vecchie baracche variopinte accalcate
    sulle colline. Dal fondo smosso si levò allora un tanfo insopportabile
    che la signora Prudencia Linero  riconobbe  come  l'odore  di  granchi
    marci del cortile di casa sua.
    Mentre durava la manovra,  i passeggeri individuavano fra la ressa sul
    molo i parenti che smaniavano di gioia.  Per la  maggior  parte  erano
    matrone  autunnali  dai  seni fiammanti,  soffocate dentro i vestiti a
    lutto,  con i bambini più belli  e  numerosi  della  terra,  e  mariti
    piccoli  e  diligenti,  del genere imperituro di quelli che leggono il
    giornale dopo le loro mogli e si vestono da notai severi  malgrado  il
    caldo.
    In  mezzo  a  quello  schiamazzo  da  fiera,  un  uomo  molto  vecchio
    dall'aspetto inconsolabile, con un soprabito da mendicante, a due mani
    tirava fuori dalle tasche manciate e manciate di pulcini teneri. In un
    istante riempirono il molo, pigolando impazziti ovunque, e solo perché
    animali di magia ce n'erano molti che continuavano a correre vivi dopo
    essere stati calpestati dalla folla  estranea  al  prodigio.  Il  mago
    aveva  posato  il  cappello per terra,  ma da bordo nessuno gli lanciò
    neppure una moneta di carità.
    Affascinata dallo spettacolo di meraviglia che sembrava offerto in suo
    onore, perché solo lei lo apprezzava,  la signora Prudencia Linero non
    si accorse di quando tesero la passerella,  e una valanga umana invase
    la nave con gli ululati e l'impeto di  un  abbordaggio  di  bucanieri.
    Stordita  dal giubilo e dal tanfo di cipolle rancide di tante famiglie
    nell'estate,  spintonata dalle squadre di facchini che picchiandosi si
    disputavano  i  bagagli,  si sentì minacciata dalla stessa morte senza
    gloria dei pulcini sul molo.  Allora sedette sul suo  baule  di  legno
    dagli angoli di latta dipinta,  e rimase impavida a pregare un rosario
    vizioso di preghiere contro le tentazioni e i  pericoli  in  terra  di
    infedeli.  Lì  la  trovò  il  primo  ufficiale  quando  fu  passato il
    cataclisma e rimase solo lei nella sala smantellata.
    «Nessuno deve stare qui a quest'ora»  le  disse  l'ufficiale  con  una
    certa amabilità. «Posso esserle di aiuto?»
    «Devo aspettare il console» disse lei.
    Così  era.  Due  giorni  prima  di  salpare,  il figlio maggiore aveva
    spedito un telegramma al console a Napoli,  che  era  amico  suo,  per
    pregarlo  che  l'aspettasse  al porto e l'aiutasse a proseguire fino a
    Roma. Gli aveva comunicato il nome della nave e l'ora di arrivo, e gli
    aveva pure indicato che avrebbe potuto riconoscerla dall'abito di  san
    Francesco che si sarebbe messa per sbarcare.  Lei si mostrò così ligia
    a quelle prescrizioni,  che il primo ufficiale le permise di aspettare
    ancora un momento, malgrado fosse l'ora in cui pranzava l'equipaggio e
    avessero ammucchiato le seggiole sui tavoli e stessero lavando i ponti
    a  secchiate  d'acqua.  Più  volte dovettero spostare il baule per non
    bagnarlo, ma lei cambiava di posto senza turbarsi,  senza interrompere
    le preghiere,  finché non la fecero uscire dalle sale per i passeggeri
    e finì seduta in pieno sole fra le scialuppe  di  salvataggio.  Lì  la
    ritrovò il primo ufficiale un po' prima delle due del pomeriggio,  che
    soffocava di sudore dentro lo scafandro da penitente,  e  recitava  un
    rosario senza speranze,  perché era terrorizzata e triste e dominava a
    stento la voglia di piangere.
    «E'  inutile  che  continui  a  pregare»  disse   l'ufficiale,   senza
    l'amabilità della prima volta. «In agosto persino Dio va in vacanza.»
    Le   spiegò  che  mezza  Italia  era  in  spiaggia  in  quel  periodo,
    soprattutto la domenica.  Era probabile che il console  non  fosse  in
    vacanza,  considerata  l'indole  della sua carica,  ma sicuramente non
    avrebbe aperto l'ufficio fino al lunedì.  L'unica cosa ragionevole era
    recarsi in un albergo, riposare in pace quella notte, e il giorno dopo
    telefonare  al  consolato,  il  cui numero stava di certo sulla guida.
    Sicché la signora Prudencia Linero dovette rassegnarsi,  e l'ufficiale
    l'aiutò  nei  tramiti dell'immigrazione e della dogana e del cambio di
    denaro,  e la sistemò dentro un taxi con l'indicazione avventurosa  di
    portarla in un albergo decente.
    Il  taxi  decrepito con inciampi da carro funebre avanzava sobbalzando
    fra le vie deserte.  La signora Prudencia Linero pensò per un  istante
    che  l'autista  e  lei fossero le uniche creature vive in una città di
    fantasmi appesi a fili di ferro attraverso le strade,  ma  pensò  pure
    che un uomo che parlava tanto,  e con tanta passione, non poteva avere
    tempo per far del male a una povera donna sola  che  aveva  sfidato  i
    rischi dell'oceano per vedere il Papa. Al termine del labirinto di vie
    di  nuovo  si vedeva il mare.  Il taxi continuò a sobbalzare lungo una
    spiaggia ardente e solitaria dove c'erano  numerosi  alberghi  piccoli
    dai  colori intensi.  Ma non si fermò lì davanti,  proseguendo fino al
    meno vistoso,  situato in un giardino  pubblico  con  grandi  palme  e
    panchine verdi. L'autista scaricò il baule sul marciapiede ombreggiato
    e,  davanti all'incertezza della signora Prudencia Linero, le assicurò
    che quello era l'albergo più decente di Napoli.
    Un facchino bello e cortese si caricò il baule in spalla e  si  occupò
    di lei.  La condusse fino all'ascensore di rete metallica improvvisato
    nella tromba delle scale, e prese a cantare un'aria di Puccini a piena
    voce e con una determinazione allarmante.  Era un vetusto edificio  di
    nove piani restaurati, a ognuno dei quali c'era un albergo diverso. La
    signora  Prudencia  Linero  si  sentì  d'improvviso  in  un istante di
    allucinazione,  cacciata dentro una  gabbia  per  galline  che  saliva
    pianissimo  in mezzo a una scala di marmi stentorei,  e sorprendeva la
    gente nella propria casa,  colta nei suoi dubbi  più  intimi,  con  le
    mutande  bucate  e i rutti acidi.  Al terzo piano l'ascensore si fermò
    con uno scossone, e allora il facchino smise di cantare, aprì la porta
    a rombi pieghevoli e indicò alla signora  Prudencia  Linero,  con  una
    riverenza galante, che era a casa sua.
    Lei  vide  un  adolescente  languido  dietro un bancone di legno dalle
    incrostazioni di vetri colorati nell'atrio con piante ombrose in  vasi
    di  rame.  Le  piacque  subito,  perché il dipendente aveva gli stessi
    riccioli da serafino  del  suo  nipote  minore.  Le  piacque  il  nome
    dell'albergo con le lettere incise su una placca di bronzo, le piacque
    l'odore  di acido fenico,  le piacquero le felci appese,  il silenzio,
    gli iris d'oro della carta  alle  pareti.  Fece  poi  un  passo  fuori
    dell'ascensore,  e  il  cuore  le  si contrasse.  Un gruppo di turisti
    inglesi in pantaloni corti e sandali da spiaggia dormicchiava  in  una
    lunga  fila  di  poltrone.  Erano  diciassette,  ed erano seduti in un
    ordine simmetrico,  come se fossero stati uno solo più volte  ripetuto
    in una galleria di specchi.  La signora Prudencia Linero li vide senza
    distinguerli,  in un solo  colpo  d'occhio,  e  l'unica  cosa  che  la
    impressionò  fu  la lunga fila di ginocchia rosee che sembravano pezzi
    di maiale appesi ai ganci di una macelleria.  Non fece  più  un  passo
    verso il bancone, ma indietreggiò spaventata e rientrò nell'ascensore.
    «Andiamo a un altro piano» disse.
    «Questo è l'unico albergo che abbia una sala da pranzo, signora» disse
    il facchino.
    «Non importa» disse lei.
    Il  facchino fece un gesto di rassegnazione,  e cantò il pezzo che gli
    mancava della romanza,  fino all'albergo del quinto  piano.  Lì  tutto
    sembrava  meno  composto e la proprietaria era una matrona primaverile
    che parlava uno spagnolo facile,  e non c'era nessuno che  facesse  la
    siesta  sulle  poltrone  dell'atrio.  Non  c'era  sala  da pranzo,  in
    effetti,  ma l'albergo aveva una convenzione con una trattoria  vicina
    affinché  servisse  i clienti a un prezzo speciale.  Sicché la signora
    Prudencia Linero decise che sì, che si fermava per una notte, convinta
    dall'eloquenza e dalla  simpatia  della  proprietaria  come  pure  dal
    sollievo  che  non  ci  fosse  alcun inglese dalle ginocchia rosee che
    dormiva nell'atrio.
    La camera aveva le persiane chiuse  alle  due  del  pomeriggio,  e  la
    penombra  conservava  la  freschezza  e  il  silenzio  di  una foresta
    recondita, e andava bene per piangere.
    Non appena fu rimasta sola,  la signora Prudencia Linero  tirò  i  due
    chiavistelli,  e  orinò  per la prima volta dal mattino con uno sbocco
    tenue e difficile che le  permise  di  riacquistare  l'identità  persa
    durante  il viaggio.  Poi si tolse i sandali e il cordone dell'abito e
    si distese dalla parte del cuore sul letto matrimoniale troppo largo e
    troppo solo per lei sola,  e liberò l'altra sorgente delle sue lacrime
    arretrate.
    Non  solo  era  la prima volta che si allontanava da Riohacha,  ma una
    delle poche in cui si allontanava da casa sua  dopo  che  i  figli  si
    erano sposati e se n'erano andati via,  e lei era rimasta sola con due
    indiane scalze che si occupavano del corpo senza anima di suo  marito.
    Metà  della  vita le si era consumata nella camera da letto davanti ai
    residui dell'unico uomo che avesse amato,  e che rimase in letargo per
    quasi trent'anni,  disteso sul letto dei suoi amori giovanili sopra un
    materasso di pelli di capra.
    Nell'ottobre precedente,  il malato aveva  aperto  gli  occhi  in  una
    raffica  improvvisa  di  lucidità,  aveva  riconosciuto la sua gente e
    aveva chiesto che chiamassero un fotografo.  Gli  avevano  portato  il
    vecchio  del  parco  con  l'enorme apparecchio con mantice e la manica
    nera, e il piatto di magnesio per le foto domestiche. Lo stesso malato
    aveva diretto le fotografie.  «Una per Prudencia,  che tanto  amore  e
    tanta  felicità  mi  ha  dato» aveva detto.  L'avevano fatta col primo
    lampo di magnesio.  «Adesso altre  due  per  le  mie  figlie  adorate,
    Prudencita e Natalia» aveva detto.  Le avevano fatte. «Altre due per i
    miei figli maschi, esempi della famiglia per il loro affetto e il loro
    giudizio» aveva detto.  E così finché non erano finiti la carta  e  il
    magnesio,  e il fotografo aveva dovuto andare a casa sua a rifornirsi.
    Alle quattro del pomeriggio,  quando ormai  non  si  poteva  respirare
    nella  camera  per  via dei fumi di magnesio e della calca di parenti,
    amici e conoscenti accorsi a prendere  le  loro  copie  del  ritratto,
    l'invalido aveva cominciato a venir meno nel letto, e si era congedato
    da  tutti salutando con la mano come svanendo dal mondo a bordo di una
    nave.
    La sua morte non era  stata  per  la  vedova  il  sollievo  che  tutti
    speravano.  Al contrario, ne era rimasta così afflitta, che i figli si
    erano riuniti per domandarle come avrebbero potuto consolarla,  e  lei
    aveva  risposto  loro  che voleva solo recarsi a Roma per conoscere il
    Papa.
    «Ci andrò sola e con l'abito di san  Francesco»  li  avvertì.  «E'  un
    voto.»
    L'unica cosa gradita che le fosse rimasta di quegli anni di veglia era
    il  piacere di piangere.  Sulla nave,  finché aveva dovuto spartire la
    cabina con due monache clarisse scese a Marsiglia,  si era  trattenuta
    nel   bagno  per  piangere  senza  essere  vista.   Sicché  la  stanza
    dell'albergo di Napoli fu l'unico luogo propizio  che  avesse  trovato
    per  piangere con agio dopo la partenza da Riohacha.  E avrebbe pianto
    fino al giorno successivo quando sarebbe partito il treno per Roma, ma
    la proprietaria bussò alla sua porta alle sette per avvisarla  che  se
    non  fosse  arrivata  per  tempo  alla trattoria sarebbe rimasta senza
    mangiare.
    L'impiegato  dell'albergo  l'accompagnò.   Una  brezza  fresca   aveva
    cominciato a soffiare dal mare, e c'erano ancora alcuni bagnanti sulla
    spiaggia  sotto  il  sole  pallido  delle sette.  La signora Prudencia
    Linero seguì l'impiegato nel labirinto di vie  ripide  e  strette  che
    cominciavano  appena  a  svegliarsi dalla siesta della domenica,  e si
    ritrovò d'improvviso sotto un pergolato ombroso,  dove c'erano  tavoli
    per  mangiare  con tovaglie a quadretti rossi e barattoli di sottaceti
    usati come vasi con fiori di carta.
    Gli unici commensali così di buon'ora erano gli stessi servitori, e un
    prete poverissimo che mangiava pane e cipolle in un  angolo  discosto.
    Entrando,  lei sentì lo sguardo di tutti per via dell'abito grigio, ma
    non si turbò,  perché era consapevole che  il  ridicolo  faceva  parte
    della penitenza.  La cameriera, invece, le suscitò una punta di pietà,
    perché era bionda e bella e parlava come se cantasse,  e lei pensò che
    in Italia dovevano passarsela molto male dopo la guerra se una ragazza
    come  quella era costretta a far la cameriera in una trattoria.  Ma si
    sentì bene nell'ambiente floreale del pergolato,  e l'aroma di stufato
    con    alloro   della   cucina   le   risvegliò   la   fame   rinviata
    dall'inquietudine della giornata.  Per la prima volta dopo molto tempo
    non aveva voglia di piangere.
    Comunque,  non  riuscì  a  mangiare in pace.  In parte perché faticò a
    intendersi con la cameriera  bionda,  per  quanto  fosse  simpatica  e
    paziente,  e in parte perché l'unica carne che c'era da mangiare erano
    certi uccelletti canterini simili a quelli che  allevavano  in  gabbia
    nelle case di Riohacha.  Il prete che mangiava nell'angolo, e che finì
    per servir loro da interprete,  cercò di farle capire che in Europa le
    emergenze  della  guerra non erano finite,  e bisognava considerare un
    miracolo il fatto  che  ci  fossero  almeno  uccelletti  di  bosco  da
    mangiare. Ma lei li rifiutò.
    «Per me» disse «sarebbe come mangiare un figlio.»
    Così  dovette  accontentarsi  di  una  pastina in brodo,  un piatto di
    zucchine bollite con qualche striscia di lardo rancido,  e un pezzo di
    pane che sembrava di marmo. Mentre mangiava, il prete si avvicinò e la
    supplicò che per carità lo invitasse a prendere una tazza di caffè,  e
    si sedette con lei.  Era slavo,  ma  aveva  fatto  il  missionario  in
    Bolivia,  e parlava uno spagnolo difficile ed espressivo. Alla signora
    Prudencia Linero sembrò un uomo volgare e senza la minima  traccia  di
    indulgenza,  e  notò che aveva mani indegne con le unghie scheggiate e
    sudicie, e un fiato di cipolle così persistente che sembrava piuttosto
    un attributo del carattere.  Ma dopotutto era al servizio di  Dio,  ed
    era  un  piacere  nuovo incontrare una persona con cui intendersi così
    lontano da casa.
    Chiacchierarono piano,  estranei al denso  rumore  da  stalla  che  li
    circondava a mano a mano che i commensali occupavano gli altri tavoli.
    La   signora   Prudencia   Linero   aveva  già  un  parere  definitivo
    sull'Italia: non le piaceva.  E non tanto perché gli uomini fossero un
    po'  oltranzosi,  il  che  non  era poco,  né perché si mangiavano gli
    uccelli, il che era già troppo, ma per la brutta abitudine di lasciare
    gli annegati alla deriva.
    Il prete, che oltre al caffè si era fatto offrire anche un bicchierino
    di grappa, cercò di farle vedere la leggerezza del suo parere. Durante
    la  guerra  era  stato  istituito  un  servizio  molto  efficace   per
    riscattare,  identificare  e seppellire in terra consacrata i numerosi
    annegati che all'alba galleggiavano nella baia di Napoli.
    «Da secoli» concluse il prete «gli italiani hanno preso coscienza  del
    fatto che c'è una sola vita,  e cercano di viverla meglio che possono.
    Questo li ha resi calcolatori e volubili,  ma li ha pure guariti dalla
    crudeltà.»
    «Non hanno neanche fermato la nave» disse lei.
    «Quel  che fanno è avvertire per radio le autorità del porto» disse il
    prete.  «A quest'ora devono averlo già raccolto e seppellito nel  nome
    di Dio.»
    La discussione cambiò l'umore di entrambi. La signora Prudencia Linero
    aveva finito di mangiare,  e solo allora si accorse che tutti i tavoli
    erano occupati.  A quelli più vicini,  intenti a mangiare in silenzio,
    c'erano turisti quasi nudi, e fra loro alcune coppie di innamorati che
    si  baciavano  invece  di  mangiare.  Ai  tavoli in fondo,  accanto al
    bancone,  c'era la gente del quartiere che giocava a dadi e beveva  un
    vino senza colore.  La signora Prudencia Linero capì che aveva un solo
    motivo per trovarsi in quel paese malaugurato.
    «Lei crede che sia molto difficile vedere il Papa?» domandò.
    Il prete le rispose che d'estate nulla era più facile. Il Papa passava
    le vacanze a Castelgandolfo,  e il mercoledì  pomeriggio  riceveva  in
    pubblica  udienza  i  pellegrini  del mondo intero.  L'entrata costava
    pochissimo: venti lire.
    «E quanto prende per confessare una persona?» domandò lei.
    «Il  Santo  Padre  non  confessa  nessuno»  disse  il  prete,  un  po'
    scandalizzato, «tranne i re, ovviamente.»
    «Non  vedo perché dovrebbe negare questo favore a una povera donna che
    viene da tanto lontano» disse lei.
    «Persino certi re,  malgrado fossero re,  sono morti aspettando» disse
    il prete.  «Ma mi dica: dev'essere un peccato tremendo se lei ha fatto
    da sola un simile viaggio solo per confessarlo al Santo Padre.»
    La signora Prudencia Linero ci pensò un momento,  e il prete  la  vide
    sorridere per la prima volta.
    «Ave Maria purissima!» disse. «Mi basterebbe vederlo.»
    E aggiunse con un sospiro che sembrò uscirle dall'anima:
    «E' stato il sogno della mia vita!»
    In  realtà,  era  sempre  spaventata  e  triste,  e  l'unica  cosa che
    desiderava era andarsene  via  subito,  non  solo  da  quel  posto  ma
    dall'Italia.  Il prete dovette pensare che da quella pazza non avrebbe
    più cavato nulla,  sicché le augurò buona fortuna e se ne  andò  a  un
    altro tavolo vicino a chiedere per carità che gli offrissero un caffè.
    Quando uscì dalla trattoria,  la signora Prudencia Linero trovò che la
    città era mutata. La sorprese la luce del sole alle nove di sera, e la
    folla stridula che aveva invaso  le  vie  rinfrancate  da  una  brezza
    nuova.  Non  si  poteva  vivere  con  gli  strepiti di tante motorette
    impazzite.  Le guidavano uomini senza camicia con dietro le loro belle
    donne  che  li  serravano  alla  vita,  e  si  facevano strada a balzi
    serpeggiando fra i maiali appesi e le bancarelle di angurie.
    L'ambiente era festoso,  ma alla signora Prudencia  Linero  sembrò  da
    catastrofe.   Si   smarrì.   Si  ritrovò  all'improvviso  in  una  via
    intempestiva con donne taciturne sedute sulla soglia delle  loro  case
    tutte  uguali,  e  le  cui  luci rosse e intermittenti le causarono un
    brivido di paura. Un uomo ben vestito, con un anello d'oro massiccio e
    un diamante alla cravatta,  la seguì  per  diversi  isolati  dicendole
    qualcosa  in italiano,  e poi in inglese e in francese.  Non ottenendo
    risposta,  le mostrò una cartolina da un pacchetto che tirò  fuori  di
    tasca,  e  a  lei  bastò  solo un colpo d'occhio per sentire che stava
    attraversando l'inferno.
    Fuggì via impaurita,  ma  alla  fine  della  strada  ritrovò  il  mare
    crepuscolare  con  lo  stesso  tanfo  di  granchi  marci  del porto di
    Riohacha,  e il cuore le tornò al suo posto.  Riconobbe  gli  alberghi
    colorati  davanti alla spiaggia deserta,  i taxi funebri,  il diamante
    della prima stella nel cielo immenso. In fondo alla baia, solitaria al
    molo,  riconobbe la nave su cui era arrivata,  enorme e  con  i  ponti
    illuminati,  e  si rese conto che non aveva più nulla a che vedere con
    la sua vita.  Lì girò a sinistra,  ma non le fu possibile  proseguire,
    perché  c'era  una  folla di curiosi tenuti a bada da una pattuglia di
    carabinieri.  Una fila di ambulanze aspettava con le  portiere  aperte
    davanti all'edificio del suo albergo.
    Sollevandosi sopra le spalle dei curiosi,  la signora Prudencia Linero
    rivide allora i turisti inglesi.  Stavano portandoli fuori in barella,
    uno per uno,  e tutti erano immobili e dignitosi,  e sembravano sempre
    uno solo più volte ripetuto col vestito ammodo che  avevano  indossato
    per la cena: pantaloni di flanella,  cravatta a righe diagonali,  e la
    giacca scura con lo stemma del Trinity College ricamato sul  taschino.
    I  vicini  affacciati ai balconi,  e i curiosi bloccati nella via,  li
    contavano in coro, come in uno stadio,  a mano a mano che li portavano
    fuori.  Erano diciassette. Li sistemarono nelle ambulanze a due a due,
    e li portarono via con uno strepito di sirene da guerra.
    Frastornata  da  tanti  stupori,  la  signora  Prudencia  Linero  salì
    sull'ascensore  zeppo di clienti degli altri alberghi che parlavano in
    lingue ermetiche.  Scesero a tutti i piani,  tranne il terzo,  che era
    aperto  e  illuminato  ma  non  c'era nessuno al banco e neppure nelle
    poltrone  dell'atrio,   dove  aveva  visto  le  ginocchia  rosee   dei
    diciassette  inglesi  addormentati.  La  proprietaria del quinto piano
    commentava il disastro in un'eccitazione senza controllo.
    «Sono tutti morti» disse alla signora Prudencia  Linero  in  spagnolo.
    «Si  sono avvelenati con la zuppa di ostriche della cena.  Ostriche in
    agosto, si figuri!»
    Le consegnò la chiave della stanza,  senza più  prestarle  attenzione,
    mentre  diceva agli altri clienti nel suo dialetto: «Visto che qui non
    c'è sala da pranzo,  chiunque si corica per dormire si sveglia  vivo».
    Di  nuovo  col groppo di lacrime in gola,  la signora Prudencia Linero
    tirò i chiavistelli della sua camera.  Poi spinse contro la  porta  la
    piccola  scrivania  e la poltrona,  e sistemò infine il baule come una
    barricata invalicabile contro l'orrore di quel paese  dove  accadevano
    tante cose al contempo. Poi si infilò la camicia da notte vedovile, si
    distese  supina  sul  letto,  e recitò diciassette rosari per l'eterno
    riposo delle anime dei diciassette inglesi avvelenati.

    aprile 1980.

















    Tramontana.

    Lo vidi una sola  volta  al  Boccaccio,  la  discoteca  alla  moda  di
    Barcellona,  poche ore prima della sua mala morte. Era braccato da una
    combriccola di giovani svedesi che cercavano di  portarselo  via  alle
    due  del  mattino per finire la festa a Cadaqués.  Erano undici,  e si
    faticava a distinguerli,  perché gli  uomini  e  le  donne  sembravano
    uguali:  belli,  con  fianchi stretti e lunghe chiome dorate.  Lui non
    doveva avere più di vent'anni.  Aveva la  testa  coperta  di  riccioli
    unti, la pelle citrina e tersa dei caraibici abituati dalle loro mamme
    a camminare all'ombra,  e uno sguardo arabo da far cascare in deliquio
    le turiste svedesi,  e forse anche parecchi degli  svedesi.  L'avevano
    fatto  sedere  sul  bancone  come  un  pupazzo  da ventriloquo,  e gli
    cantavano canzoni alla moda accompagnandosi con le palme  delle  mani,
    per convincerlo ad andarsene con loro.  Lui,  terrorizzato, spiegava i
    suoi  motivi.   Qualcuno  intervenne  gridando  per  esigere  che   lo
    lasciassero  in  pace,  e  uno  degli  svedesi lo spinse via morto dal
    ridere.
    «E'  nostro»  gridò.   «L'abbiamo   trovato   nel   cassonetto   della
    spazzatura.»
    Io  ero  entrato  poco  prima  con  un  gruppo  di amici dopo l'ultimo
    concerto di David Oistrakh al Palau de la Música, e mi si accapponò la
    pelle davanti all'incredulità  degli  svedesi.  Perché  i  motivi  del
    ragazzo  erano  sacrosanti.  Aveva  vissuto a Cadaqués fino all'estate
    precedente,  dove l'avevano assunto per cantare canzoni delle  Antille
    in un bar alla moda,  finché non l'aveva sconfitto la tramontana.  Era
    riuscito a fuggire il secondo giorno deciso a non tornare mai più, con
    tramontana o senza,  sicuro che se ci fosse tornato  lo  aspettava  la
    morte.  Era una certezza caraibica che non poteva essere intesa da una
    banda di nordici razionalisti,  eccitati dall'estate e dai  duri  vini
    catalani di quell'epoca, che seminavano idee prepotenti nel cuore.
    Io  lo capivo benissimo.  Cadaqués era uno dei paesini più belli della
    Costa Brava,  e anche il meglio conservato.  Lo si doveva in parte  al
    fatto  che  la  strada di accesso era un cornicione stretto e contorto
    sul bordo di un abisso senza fondo, dove bisognava avere un bel fegato
    per guidare a più di cinquanta chilometri all'ora.  Le case di  sempre
    erano  bianche  e  basse,  nello  stile  tradizionale  dei villaggi di
    pescatori del Mediterraneo. Quelle nuove erano costruite da architetti
    di fama che avevano rispettato l'armonia originale.  D'estate,  quando
    il  caldo  sembrava  arrivare  dai deserti africani del marciapiede di
    fronte,  Cadaqués si trasformava in una Babele infernale,  con turisti
    di  tutta  l'Europa  che  per tre mesi contendevano quel paradiso alla
    gente del posto e ai  forestieri  che  avevano  avuto  la  fortuna  di
    comprarsi  una  casa  a  buon  prezzo  quando  ancora  era  possibile.
    Tuttavia,  in primavera e in autunno,  che  erano  i  periodi  in  cui
    Cadaqués  era  più  gradevole,  nessuno smetteva di pensare con timore
    alla tramontana,  un vento di terra  inclemente  e  tenace  che,  come
    pensavano la gente del posto e certi scrittori rinsaviti,  reca con sé
    i germi della follia.
    Quindici anni fa io ero uno dei suoi  visitatori  assidui,  finché  la
    tramontana  non  irruppe  nelle  nostre  vite.  Io la sentii prima che
    arrivasse,   una  domenica  all'ora   della   siesta,   col   presagio
    inspiegabile  che  qualcosa  stesse per accadere.  Mi sentii depresso,
    irrimediabilmente triste, ed ebbi l'impressione che i miei figli,  che
    allora  non  avevano ancora dieci anni,  mi seguissero per la casa con
    sguardi ostili.  Il portinaio entrò di lì a poco con  una  scatola  di
    utensili e funi da marinaio per assicurare porte e finestre,  e non si
    stupì della mia prostrazione.
    «E' la tramontana» mi disse. «Prima di un'ora sarà qui.»
    Era un antico uomo di mare, molto vecchio, che del mestiere conservava
    il  giaccone  impermeabile,  il  berretto  e  la  pipa,   e  la  pelle
    bruciacchiata dai sali del mondo.  Nelle sue giornate libere giocava a
    bocce nella piazza con veterani di diverse guerre  perdute,  e  beveva
    aperitivi con i turisti nelle taverne del porto, perché aveva la virtù
    di farsi capire in qualsiasi lingua col suo catalano da artigliere. Si
    vantava  di  conoscere  tutti  i  porti  del  mondo,  ma nessuna città
    dell'entroterra.  «Neppure Parigi in Francia con tutto quello  che  è»
    diceva. Non dava credito ad alcun veicolo che non fosse per mare.
    Negli  ultimi  anni  era  invecchiato  di colpo,  e non era tornato in
    strada.  Passava la maggior parte  del  tempo  nello  stambugio  della
    portineria,  solo nell'anima, come sempre aveva vissuto. Si cucinava i
    pasti in una latta e su un fornello  ad  alcol,  ma  gli  bastava  per
    deliziarci tutti con le squisitezze della cucina gotica. Fin dall'alba
    si occupava degli inquilini,  piano per piano, ed era uno degli uomini
    più  servizievoli  che  abbia  mai  conosciuto,   con  la   generosità
    involontaria e la tenerezza ruvida dei catalani.  Parlava poco,  ma il
    suo stile era diretto e sicuro.  Quando non aveva più  nulla  da  fare
    passava  ore riempiendo schedine di pronostici del calcio che molto di
    rado giocava.
    Quel giorno,  mentre assicurava porte e  finestre  in  previsione  del
    disastro,  ci  parlò  della  tramontana  come se fosse stata una donna
    abominevole ma senza la quale la sua vita non avrebbe avuto senso.  Mi
    stupì  che  un  uomo  di mare rendesse un simile tributo a un vento di
    terra.
    «Questo è il più antico» disse.
    Dava l'impressione che il suo anno non fosse diviso in giorni  e  mesi
    ma nel numero di volte in cui arrivava la tramontana.  «L'anno scorso,
    un tre giorni dopo la  seconda  tramontana,  ho  avuto  una  crisi  di
    coliche» mi disse una volta. Forse questo spiegava la sua credenza per
    cui  dopo  ogni tramontana ci si ritrovava più vecchi di diversi anni.
    Era tale la sua ossessione, che ci trasmise l'ansia di conoscerla come
    una visitatrice mortale e appetibile.
    Non ci fu molto da aspettare. Non appena il portinaio fu uscito si udì
    un sibilo che a poco a poco si fece sempre più acuto e intenso,  e  si
    dissolse in uno strepito da tremor di terra. Allora cominciò il vento.
    Dapprima a raffiche intervallate sempre più frequenti,  finché una non
    rimase immobile, senza una pausa, senza una tregua, con un'intensità e
    una  sevizia  che  avevano  qualcosa  di  sovrannaturale.   Il  nostro
    appartamento,  contrariamente  a  quanto  in  uso  nei Caraibi,  stava
    davanti alla montagna,  forse per lo strano gusto dei vecchi  catalani
    che  amano  il  mare  ma senza vederlo.  Sicché il vento ci colpiva di
    fronte e minacciava di spezzare le amarre delle finestre.
    Quel che più mi colpi fu che il  tempo  era  sempre  di  una  bellezza
    irripetibile,  con un sole d'oro e il cielo impavido. A tal punto, che
    decisi di uscire in strada con i bambini per vedere com'era  il  mare.
    Loro,  in fin dei conti,  erano cresciuti fra i terremoti di Città del
    Messico e gli uragani dei Caraibi,  e un vento in più o in meno non ci
    sembrò  capace  di turbar nessuno.  Passammo in punta di piedi davanti
    allo stambugio del portiere,  e lo vedemmo statico dinanzi a un piatto
    di  fagioli  con  salame  piccante,  che  contemplava  il  vento dalla
    finestra. Non ci vide uscire.
    Riuscimmo  a  camminare  finché  restammo  riparati  dalla  casa,   ma
    spingendoci  oltre  l'angolo  fummo  costretti  ad  abbracciarci  a un
    lampione  per  non  essere  trascinati  via  dalla  furia  del  vento.
    Rimanemmo  così,  ad  ammirare  il mare immobile e diafano in mezzo al
    cataclisma,  finché il portinaio,  con l'aiuto di alcuni  vicini,  non
    venne  a  soccorrerci.  Solo  allora  ci  convincemmo che l'unica cosa
    razionale era rimanere chiusi in casa finché così avesse voluto Dio. E
    nessuno aveva allora la minima idea di quanto  a  lungo  così  avrebbe
    voluto.
    Dopo  due  giorni  avevamo l'impressione che quel vento spaventoso non
    fosse un fenomeno meteorologico,  ma un oltraggio personale.  Una cosa
    che qualcuno stava facendo contro qualcun altro, e contro uno solo. Il
    portinaio  veniva  a trovarci più volte al giorno,  preoccupato per il
    nostro stato d'animo,  e ci portava frutta di stagione e torrone per i
    bambini.  Per  il  pranzo  del martedì,  ci regalò il capolavoro della
    cucina catalana,  preparato nella sua latta: coniglio con lumache.  Fu
    una festa in mezzo all'orrore.
    Il  mercoledì,  in cui non accadde altro che il vento,  fu la giornata
    più lunga della mia vita.  Ma dovette essere un  po'  come  l'oscurità
    dell'alba,   perché  dopo  la  mezzanotte  ci  risvegliammo  tutti  al
    contempo,  oppressi da un silenzio assoluto  che  solo  poteva  essere
    quello  della  nostra  morte.  Non  si muoveva una foglia degli alberi
    dalla parte della montagna. Sicché uscimmo in strada quando ancora non
    c'era luce nella stanza del portinaio, e ci godemmo il cielo del primo
    mattino con tutte le stelle  accese,  e  il  mare  fosforescente.  Per
    quanto  non  fossero ancora le cinque,  molti turisti si godevano quel
    sollievo sulla spiaggia sassosa,  e cominciavano a preparare le barche
    a vela dopo tre giorni di penitenza.
    Uscendo  non  ci  aveva  colpiti  il fatto che la stanza del portinaio
    fosse al buio.  Ma quando rincasammo  l'aria  aveva  ormai  la  stessa
    fosforescenza del mare, e il suo stambugio era sempre spento. Stupito,
    bussai due volte,  e visto che non rispondeva,  spinsi la porta. Credo
    che i bambini lo  videro  prima  di  me,  e  cacciarono  un  grido  di
    spavento.  Il  vecchio  portinaio,  con  le  sue insegne di navigatore
    accorto attaccate al bavero della giacca marinara,  era appeso per  il
    collo alla trave centrale,  e ancora dondolava all'ultimo soffio della
    tramontana.
    In piena convalescenza,  e con una sensazione di nostalgia anticipata,
    ce  ne  andammo  dal villaggio prima del previsto,  con la risoluzione
    irrevocabile di non tornarci mai più.  I turisti  erano  di  nuovo  in
    strada,  e  c'era  musica  nella  piazza  dei  veterani,  che a stento
    riuscivano a lanciare le bocce.  Attraverso i vetri polverosi del  bar
    Marítim  ci  fu  possibile  vedere  alcuni  amici  sopravvissuti,  che
    riprendevano a vivere nella primavera  radiosa  della  tramontana.  Ma
    tutto quello apparteneva ormai al passato.
    Per questo,  nell'alba triste del Boccaccio,  nessuno capiva meglio di
    me il terrore di chi non voleva tornare a Cadaqués,  perché era sicuro
    di morire.  Tuttavia,  non ci fu verso di dissuadere gli svedesi,  che
    finirono per portarsi via di peso il ragazzo con la pretesa europea di
    somministrargli una cura efficace con le loro  soperchierie  africane.
    Lo cacciarono sgambettante in un camioncino di ubriachi, in mezzo agli
    applausi  e  ai  fischi  della  clientela  divisa,  e  intrapresero  a
    quell'ora il lungo viaggio per Cadaqués.
    La mattina dopo mi svegliò il telefono.  Avevo dimenticato di chiudere
    le tende tornando dalla festa e non avevo la minima idea dell'ora,  ma
    la stanza era ricolma dello splendore dell'estate.  La voce ansiosa al
    telefono, che subito non riuscii a riconoscere, finì per svegliarmi.
    «Ricordi il ragazzo che la notte scorsa si sono portati a Cadaqués?»
    Non dovetti ascoltare oltre. Solo che non fu come me l'ero immaginato,
    ma  in  maniera  addirittura  più drammatica.  Il ragazzo,  spaventato
    dall'imminenza del ritorno,  aveva approfittato di una distrazione dei
    matti  svedesi e si era lanciato nell'abisso dal camioncino in marcia,
    cercando di sfuggire a una morte ineluttabile.

    gennaio 1982.
    L'estate felice della signora Forbes.

    Nel pomeriggio, di ritorno a casa,  trovammo un enorme serpente marino
    inchiodato  per  il  collo  sullo  stipite della porta,  ed era nero e
    fosforescente e sembrava un maleficio di zingari, con gli occhi ancora
    vivi e i denti a saracco nelle mascelle spalancate.  Io  dovevo  avere
    allora  nove  anni,  e  provai  un  terrore  così  intenso  dinanzi  a
    quell'apparizione da delirio,  che  mi  si  blocco  la  voce.  Ma  mio
    fratello, che aveva due anni meno di me, mollò le bombole di ossigeno,
    le  maschere  e  le  pinne  e  scappò via con un grido di terrore.  La
    signora Forbes lo udì fin  dalla  tortuosa  scala  di  pietre  che  si
    arrampicava  su  per  gli  scogli  dall'imbarcadero fino a casa,  e ci
    raggiunse, ansimante e livida, ma le bastò vedere l'animale crocefisso
    sulla porta per capire la causa del nostro orrore.  Lei diceva  sempre
    che quando due bambini sono insieme, sono tutt'e due colpevoli di quel
    che ognuno fa separatamente, sicché ci sgridò entrambi per le grida di
    mio  fratello,  e  continuò  a rimproverarci per la nostra mancanza di
    controllo. Parlò in tedesco,  e non in inglese,  come prevedeva il suo
    contratto  di  istitutrice,  forse  perché  pure  lei era spaventata e
    rifiutava di ammetterlo. Ma non appena ebbe ripreso fiato tornò al suo
    inglese sassoso e alla sua ossessione pedagogica.
    «E' una "muraena helena"»  ci  disse,  «così  chiamata  perché  fu  un
    animale sacro per gli antichi greci.»
    Oreste, il ragazzo del luogo che ci insegnava a nuotare in profondità,
    comparve  d'improvviso  dietro  gli  arbusti  di  capperi.  Portava la
    maschera da subacqueo sulla fronte,  un costume da bagno  minuscolo  e
    una  cintura di cuoio con sei coltelli,  di forme e grandezze diverse,
    perché non concepiva altro modo di cacciare  sott'acqua  che  lottando
    corpo a corpo con gli animali.  Aveva una ventina di anni, passava più
    tempo nei fondali marini che sulla terra ferma e lui  stesso  sembrava
    un  animale  del  mare  col  corpo  sempre  impiastricciato di olio da
    motore.  Vedendolo per la prima volta la signora Forbes aveva detto ai
    miei  genitori  che  era  impossibile concepire una creatura umana più
    bella. Tuttavia, la sua bellezza non lo esentava dal rigore: anche lui
    dovette subire una reprimenda in italiano per avere appeso  la  murena
    alla porta, senza altra spiegazione possibile che quella di spaventare
    i bambini. Poi, la signora Forbes ordinò che la staccasse col rispetto
    dovuto a una creatura mitica e ci mandò a vestirci per la cena.
    Lo facemmo subito e tentando di non commettere un solo errore,  perché
    dopo due settimane  sotto  il  regime  della  signora  Forbes  avevamo
    imparato che nulla era più difficile che vivere. Mentre ci facevamo la
    doccia  nel bagno,  in penombra,  mi resi conto che mio fratello stava
    sempre pensando alla murena. «Aveva occhi da persona» mi disse. Io ero
    d'accordo,  ma gli feci credere il contrario,  e continuai a  cambiare
    argomento  finché  non  ebbi finito di lavarmi.  Ma quando uscii dalla
    doccia mi chiese di fermarmi per fargli compagnia.
    «E' ancora giorno» gli dissi.
    Aprii le tende. Era pieno agosto, e attraverso la finestra si vedevano
    l'ardente pianura lunare fino all'altra parte dell'isola,  e  il  sole
    fermo nel cielo.
    «Non  è  per  questo»  disse  mio fratello.  «E' che ho paura di avere
    paura.»
    Comunque, quando arrivammo a tavola sembrava tranquillo, e aveva fatto
    le cose con tanta cura che  meritò  un  apprezzamento  speciale  della
    signora  Forbes,  e  altri  due  punti  nel  conto  del  suo  profitto
    settimanale.  Quanto a me,  invece,  mi tolse due punti dei cinque che
    avevo  già  guadagnato,  perché  all'ultimo  momento  mi  ero lasciato
    trascinare dalla fretta ed ero arrivato in sala da pranzo col  respiro
    affannato. Ogni cinquanta punti davano diritto a una doppia razione di
    dolce,  ma  nessuno di noi due era riuscito ad andare oltre i quindici
    punti. Era un peccato, davvero, perché non trovammo mai più un pudding
    delizioso come quello della signora Forbes.
    Prima di cominciare la cena  pregavamo  in  piedi  davanti  ai  piatti
    vuoti.  La  signora  Forbes  non  era  cattolica,  ma il suo contratto
    stabiliva che ci facesse pregare sei volte al giorno, e aveva imparato
    le nostre preghiere per esservi ligia.  Poi ci  sedevamo  tutt'e  tre,
    trattenendo il respiro mentre lei controllava persino il dettaglio più
    infimo della nostra condotta, e solo quando tutto le sembrava perfetto
    faceva  risuonare  il campanello.  Allora entrava Fulvia Flaminea,  la
    cuoca, con l'eterna pastina in brodo di quell'estate aborrita.
    All'inizio,  quando eravamo soli con i nostri genitori,  i pasti erano
    una festa. Fulvia Flaminea ci serviva chiocciando intorno alla tavola,
    con  una  vocazione  al disordine che rallegrava la vita,  e infine si
    sedeva con noi e finiva per mangiare un po' dai piatti  di  tutti.  Ma
    dopo  che  la signora Forbes si era fatta carico del nostro destino ci
    serviva in un silenzio così buio,  che  potevamo  udire  il  borboglio
    della  minestra  mentre  bolliva nella pentola.  Cenavamo con la spina
    dorsale appoggiata alla spalliera  della  seggiola,  masticando  dieci
    volte  con  una mascella e dieci volte con l'altra,  senza scostare lo
    sguardo dalla ferrea  e  languida  donna  autunnale,  che  recitava  a
    memoria una lezione di urbanità.  Era come la messa della domenica, ma
    senza il conforto della gente che cantava.
    Il giorno in cui trovammo la murena  appesa  alla  porta,  la  signora
    Forbes  ci  parlò dei doveri verso la patria.  Fulvia Flaminea,  quasi
    fluttuando nell'aria rarefatta dalla voce,  ci servì dopo la  minestra
    un filetto alla brace di una carne nivea,  con un odore squisito.  Io,
    che già allora preferivo il pesce a qualsiasi altra cosa  da  mangiare
    della  terra  o  del  cielo,  mi  ritrovai  col cuore blandito da quel
    ricordo della nostra casa di Guacamayal.  Ma mio fratello respinse  il
    piatto senza assaggiarlo.
    «Non mi piace» disse.
    La signora Forbes interruppe la lezione.
    «Non puoi saperlo» gli disse, «non l'hai neppure assaggiato.»
    Rivolse alla cuoca uno sguardo di allarme, ma ormai era troppo tardi.
    «La  murena  è il pesce più saporito del mondo,  figlio mio» gli disse
    Fulvia Flaminea. «Assaggialo e vedrai.»
    La  signora  Forbes  non  si  turbò.  Ci  raccontò,   col  suo  metodo
    inclemente,  che  la murena era un cibo da re nell'antichità,  e che i
    guerrieri si contendevano il suo fiele perché  infondeva  un  coraggio
    sovrannaturale.  Poi  ci  ripeté,  come tante altre volte in così poco
    tempo,  che il buon gusto non è una virtù congenita,  e che neppure lo
    si  insegna  a  una  qualche età,  ma che si impone sin dall'infanzia.
    Sicché non c'era alcun motivo valido per non mangiare.  Io,  che avevo
    assaggiato la murena prima di sapere cosa fosse, rimasi per sempre con
    quella   contraddizione:  aveva  un  sapore  terso,   sebbene  un  po'
    malinconico, ma l'immagine del serpente trafitto sullo stipite era più
    incalzante dell'appetito.  Mio fratello fece uno  sforzo  supremo  col
    primo boccone, ma non riuscì a tollerarlo: vomitò.
    «Va' in bagno» gli disse la signora Forbes senza turbarsi, «lavati per
    bene e torna a mangiare.»
    Provai  una grande angoscia per lui,  perché sapevo quanto gli costava
    attraversare tutta la casa alle prime ombre  e  rimanere  da  solo  in
    bagno  il  tempo  necessario per lavarsi.  Ma tornò molto presto,  con
    un'altra camicia  pulita,  pallido  e  appena  scosso  da  un  tremito
    recondito,  e  superò  benissimo  l'esame  severo  della sua nettezza.
    Allora la signora Forbes tranciò un pezzo della murena, e diede ordine
    di continuare. Io inghiottii un secondo boccone sforzandomi molto. Mio
    fratello, invece, non prese neppure le posate.
    «Non la mangerò» disse.
    La sua risoluzione era così evidente, che la signora Forbes la schivò.
    «Va bene» disse, «ma non mangerai il dolce.»
    Il sollievo di mio fratello mi infuse il suo  coraggio.  Incrociai  le
    posate sul piatto,  così come la signora Forbes ci aveva insegnato che
    bisognava fare per finire, e dissi:
    «Neppure io mangerò il dolce.»
    «E neppure vedrete le televisione» replicò lei.
    «E neppure vedremo la televisione» dissi.
    La signora Forbes posò il tovagliolo sulla tavola,  e  tutt'e  tre  ci
    alzammo a pregare. Poi ci spedì in camera nostra, con l'avvertenza che
    dovevamo  addormentarci nello stesso tempo che lei impiegava per finir
    di mangiare.  Tutti i nostri punti buoni furono annullati,  e  solo  a
    partire da venti avremmo di nuovo beneficiato dei suoi pasticcini alla
    crema,  delle sue torte alla vaniglia,  delle sue squisite crostate di
    prugne,  di cui non avremmo conosciuto l'uguale nel resto delle nostre
    vite.
    Prima  o  poi  dovevamo arrivare a quella rottura.  Per un anno intero
    avevamo  atteso  con   ansia   quell'estate   libera   sull'isola   di
    Pantelleria,  all'estremità  meridionale della Sicilia,  ed era andata
    proprio così durante il primo mese,  finché i  nostri  genitori  erano
    rimasti  con  noi.  Ricordo  ancora come un sogno la pianura solare di
    rocce vulcaniche,  il mare eterno,  la casa dipinta di calce viva fino
    ai  gradini  di  ingresso,  dalle cui finestre si vedevano nelle notti
    senza vento le croci luminose dei fari d'Africa.  Esplorando  con  mio
    padre  i  fondali  addormentati intorno all'isola avevamo scoperto una
    fila di siluri  gialli,  incagliati  lì  dall'ultima  guerra;  avevamo
    recuperato un'anfora greca di quasi un metro d'altezza,  con ghirlande
    pietrificate,  nel cui fondo giacevano i residui di un vino immemore e
    velenoso,  e avevamo fatto il bagno in una gora fumante,  le cui acque
    erano così dense che  vi  si  poteva  quasi  camminare  sopra.  Ma  la
    scoperta più sconvolgente per noi era stata Fulvia Flaminea.  Sembrava
    un vescovo felice,  e girava  sempre  con  una  combriccola  di  gatti
    sonnacchiosi che la intralciavano nel camminare, ma lei diceva che non
    li  sopportava  per  amore,  quanto  per  impedire  che  i  topi se la
    mangiassero.  Di notte,  mentre  i  nostri  genitori  guardavano  alla
    televisione i programmi per adulti, Fulvia Flaminea ci portava con lei
    a  casa  sua,  a  meno  di cento metri dalla nostra,  e ci insegnava a
    distinguere le parlate remote,  le canzoni,  le raffiche di pianto dei
    venti  di Tunisi.  Suo marito era un uomo troppo giovane per lei,  che
    lavorava durante l'estate negli alberghi turistici all'altra estremità
    dell'isola,  e rincasava  solo  per  dormire.  Oreste  abitava  con  i
    genitori  un  po' più lontano,  e arrivava sempre di sera con filze di
    pesci e canestri di aragoste appena  pescate,  e  le  appendeva  nella
    cucina  affinché  il  marito  di Fulvia Flaminea le vendesse il giorno
    dopo negli alberghi.  Poi si risistemava la torcia da subacqueo  sulla
    fronte  e  ci  portava  a  cacciare  i  topi di montagna,  grossi come
    conigli, che aspettavano i rifiuti delle cucine.  Talvolta rincasavamo
    quando  i  nostri genitori si erano coricati,  e riuscivamo a stento a
    dormire col chiasso dei  topi  che  si  contendevano  gli  avanzi  nei
    cortili. Ma anche quel disturbo era un ingrediente magico della nostra
    estate felice.
    La  decisione  di assumere un'istitutrice tedesca era potuta venire in
    mente solo a mio padre,  che era uno scrittore dei  Caraibi,  con  più
    velleità  che talento.  Abbagliato dalle ceneri delle glorie d'Europa,
    era sempre parso troppo ansioso di farsi perdonare la sua origine, sia
    nei libri sia nella vita reale,  e si era imposto la fantasia che  non
    rimanesse nei figli alcuna traccia del suo passato. Mia madre continuò
    a  essere  sempre  umile  come  lo  era stata quando faceva la maestra
    errante nell'alta Guajira,  e non si era mai immaginata che il  marito
    potesse concepire un'idea che non fosse provvidenziale. Sicché nessuno
    dei  due  dovette  domandarsi  col cuore in mano come sarebbe stata la
    nostra vita con una sergentessa di Dortmund,  impegnata a inculcarci a
    forza  le  abitudini  più  viete  della  società europea,  mentre loro
    partecipavano  con  quaranta  scrittori  alla  moda  a  una   crociera
    culturale di cinque settimane nelle isole dell'Egeo.
    La  signora Forbes era arrivata l'ultimo sabato di luglio col battello
    che faceva la spola da Palermo, e già al vederla per la prima volta ci
    rendemmo conto che la festa era finita.  Arrivò con certi  stivali  da
    soldato, e un vestito a doppiopetto in quel caldo meridionale, e con i
    capelli  tagliati  come  quelli  di  un  uomo,  sotto il cappellino di
    feltro.  Puzzava di orina  di  micco:  «E'  la  puzza  degli  europei,
    soprattutto d'estate» ci disse mio padre.  «E' l'odore della civiltà.»
    Ma,  a dispetto del suo abbigliamento marziale,  la signora Forbes era
    una  creatura  misera,  che  forse  ci  avrebbe  suscitato  una  certa
    compassione se fossimo stati più grandi o se lei avesse avuto  qualche
    traccia  di tenerezza.  Il mondo si fece diverso.  Le sei ore di mare,
    che  dal  principio  dell'estate  erano  un  continuo   esercizio   di
    immaginazione,  divennero  una  sola  ora  sempre  uguale,  più  volte
    reiterata.  Quando eravamo con i nostri genitori disponevamo di  tutto
    il tempo per nuotare con Oreste, meravigliati dall'arte e dall'audacia
    con  cui  affrontava i polipi nella loro acqua torbida di inchiostro e
    sangue,  senza altre armi che i suoi coltelli  da  combattimento.  Poi
    continuò  ad  arrivare  alle  undici con la barchetta dal motore fuori
    bordo, come faceva sempre,  ma la signora Forbes non gli permetteva di
    fermarsi  con  noi  neppure  un  minuto più dell'indispensabile per la
    lezione di nuoto sott'acqua.  Ci proibì di tornare di notte a casa  di
    Fulvia  Flaminea,  perché la considerava una familiarità eccessiva con
    la  servitù,   e  si  dovette  dedicare  alla  lettura  analitica   di
    Shakespeare il tempo che prima impiegavamo cacciando topi.  Abituati a
    rubare manghi nei cortili e a uccidere cani a colpi di  mattone  nelle
    strade  ardenti  di  Guacamayal,  per noi era impossibile concepire un
    tormento più crudele di quella vita da principi.
    Comunque,  ben presto ci accorgemmo che  la  signora  Forbes  non  era
    severa  con se stessa come lo era con noi,  e quella fu la prima crepa
    nella sua  autorità.  All'inizio  rimaneva  sulla  spiaggia  sotto  il
    parasole  colorato,  vestita  da guerra,  intenta a leggere ballate di
    Schiller mentre Oreste ci insegnava a nuotare  sott'acqua,  e  poi  ci
    dava  lezioni  teoriche  di buona condotta in società,  per ore e ore,
    fino alla pausa del pranzo.
    Un giorno chiese a Oreste che la portasse con la  barchetta  a  motore
    fino  ai negozi per turisti degli alberghi,  e tornò con un costume da
    bagno intero, nero e cangiante,  come una pelle di foca,  ma non entrò
    mai in acqua.  Prendeva il sole sulla spiaggia mentre noi nuotavamo, e
    si asciugava il sudore  con  l'accappatoio,  senza  passare  sotto  la
    doccia, sicché di lì a tre giorni sembrava un'aragosta in carne viva e
    l'odore della sua civiltà era diventato irrespirabile.
    Le  sue  notti  erano  di liberazione.  Fin dall'inizio del suo regime
    sentivamo che qualcuno camminava nel buio  della  casa,  nuotando  nel
    buio,  e  mio  fratello  si  inquietò persino all'idea che fossero gli
    annegati erranti di cui tanto ci aveva parlato  Fulvia  Flaminea.  Ben
    presto  scoprimmo  che  era  la  signora Forbes,  che passava la notte
    vivendo la sua vita reale  di  donna  solitaria,  che  lei  stessa  si
    sarebbe censurata durante il giorno. Una mattina all'alba la scoprimmo
    in cucina,  con la camicia da notte da collegiale, intenta a preparare
    i suoi dolci splendidi,  con tutto il corpo impiastricciato di  farina
    fino al viso,  e a bere un bicchiere di porto con un disordine mentale
    che avrebbe causato lo scandalo dell'altra signora Forbes.  Già allora
    sapevamo  che dopo esserci coricati non se ne andava nella sua camera,
    ma scendeva a nuotare di nascosto,  oppure rimaneva fino a molto tardi
    nel  salotto,  a guardare alla televisione senza audio i film proibiti
    ai minori,  mentre mangiava torte intere e beveva anche una  bottiglia
    del vino speciale che mio padre conservava con tanta attenzione per le
    occasioni memorabili. Contrariamente alle sue prediche, di austerità e
    compostezza,  si  rimpinzava  a  dismisura,  con una sorta di passione
    sbrigliata.  Poi la sentivamo parlare da sola  nella  sua  camera,  la
    sentivamo  recitare  nel  suo  tedesco melodioso frammenti completi di
    "Die  Jungfrau  von  Orleans",  la  sentivamo  cantare,  la  sentivamo
    singhiozzare nel letto fino all'alba,  e poi compariva a colazione con
    gli occhi gonfi di lacrime,  sempre più lugubre e autoritaria.  Né mio
    fratello né io fummo mai più sventurati di allora,  ma io ero disposto
    a sopportarla sino alla  fine,  perché  sapevo  che  comunque  la  sua
    ragione   avrebbe  prevalso  sulla  nostra.   Mio  fratello,   invece,
    l'affrontò con tutto l'impeto del suo  carattere,  e  l'estate  felice
    divenne per noi infernale. L'episodio della murena fu l'ultima goccia.
    Quella   stessa  notte,   mentre  sentivamo  dal  letto  l'andirivieni
    incessante della signora Forbes nella casa addormentata,  mio fratello
    liberò  d'improvviso tutto il carico del rancore che stava marcendogli
    nell'anima. «La ucciderò» disse.
    Mi stupì, non tanto per la sua decisione,  quanto per la casualità che
    io stavo pensando la stessa cosa dopo quella cena. Tuttavia, cercai di
    dissuaderlo.
    «Ti taglieranno la testa» gli dissi.
    «In Sicilia non c'è la ghigliottina» disse lui. «Inoltre nessuno saprà
    chi è stato.»
    Pensava  all'anfora  recuperata  dalle  acque,  dove  c'era  ancora il
    sedimento del vino mortale.  Mio padre  lo  conservava  perché  voleva
    farlo  sottoporre a un'analisi più approfondita per chiarire la natura
    del veleno,  non potendo essere il risultato del semplice  trascorrere
    del  tempo.  Usarlo  contro  la  signora  Forbes era così facile,  che
    nessuno avrebbe pensato che non si fosse trattato di un incidente o di
    suicidio.  Sicché all'alba,  quando la sentimmo cadere spossata  dalla
    fragorosa  veglia,  versammo  il  vino dell'anfora nella bottiglia del
    vino speciale di mio padre. Come avevamo sentito dire, quella dose era
    sufficiente per ammazzare un cavallo.
    La colazione la facemmo in cucina alle nove in  punto,  servita  dalla
    stessa  signora Forbes con i panini dolci che Fulvia Flaminea lasciava
    molto presto sopra il focolare.  Due giorni dopo  aver  sostituito  il
    vino,  mentre facevamo colazione,  mio fratello mi fece notare con uno
    sguardo di delusione che la bottiglia  avvelenata  era  intatta  sulla
    credenza.  Questo  accadde  un venerdì,  e la bottiglia rimase intatta
    durante il finesettimana.  Ma la notte del martedì,  la signora Forbes
    se   ne   bevve  la  metà  mentre  guardava  i  film  libertini  della
    televisione.
    Tuttavia,  arrivò puntuale come sempre alla colazione  del  mercoledì.
    Aveva  la solita faccia da notte in bianco,  e gli occhi erano ansiosi
    come sempre dietro le  lenti  massicce,  e  le  divennero  ancora  più
    ansiosi   quando   trovò  nel  cestino  dei  panini  una  lettera  con
    francobolli della Germania.  La lesse mentre  beveva  il  caffè,  come
    tante  volte ci aveva detto che non bisognava fare,  e nel corso della
    lettura le passavano sul viso raffiche di chiarore che irraggiavano le
    parole scritte.  Poi strappò i francobolli dalla busta e li  mise  nel
    cestino  con  i  panini avanzati per la colazione del marito di Fulvia
    Flaminea.  Malgrado la brutta  esperienza  iniziale,  quel  giorno  ci
    accompagnò nell'esplorazione dei fondali marini, e restammo a divagare
    per  un mare di acque magre finché non cominciò a esaurirsi l'ossigeno
    e tornammo a casa senza la lezione di buone maniere. La signora Forbes
    non solo fu d'animo floreale per tutto il giorno,  ma all'ora di  cena
    sembrava più vivace che mai.  Mio fratello,  dal canto suo, non poteva
    sopportare quella delusione.  Appena ricevuto l'ordine di  cominciare,
    scostò il piatto di pastina in brodo con un gesto provocatore.
    «Ne ho le palle piene di questa zuppa di lombrichi» disse.
    Fu come se avesse lanciato in tavola una granata da guerra. La signora
    Forbes  divenne  pallida,  le  sue  labbra  si irrigidirono finché non
    cominciò a svanire il fumo dell'esplosione,  e i vetri delle sue lenti
    si appannarono di lacrime. Poi se li tolse, li asciugò col tovagliolo,
    e  prima  di  alzarsi  li  posò  sulla  tavola  con  l'amarezza di una
    capitolazione senza gloria.
    «Fate come più vi piace» disse. «Io non esisto.»
    Si chiuse nella sua camera fin dalle sette. Ma prima della mezzanotte,
    quando ci credeva  ormai  addormentati,  la  vedemmo  passare  con  la
    camicia  da  collegiale,  che  si portava in camera sua mezza torta di
    cioccolata e la bottiglia con oltre quattro dita del vino  avvelenato.
    Ebbi un tremito di pietà.
    «Povera signora Forbes» dissi.
    Mio fratello non respirava tranquillo.
    «Poveri noi se non muore stanotte» disse.
    Quel  mattino verso l'alba riprese a parlare da sola a lungo,  declamò
    Schiller ad alta voce, ispirata da una pazzia frenetica, e culminò con
    un grido finale che occupò tutto lo spazio della casa. Poi sospirò più
    volte sino in fondo  all'anima  e  crollò  con  un  fischio  triste  e
    continuo  come  quello di una nave alla deriva.  Quando ci svegliammo,
    ancora spossati dalla tensione  della  notte  trascorsa,  il  sole  si
    infilava  a  coltellate  attraverso  le persiane,  ma la casa sembrava
    immersa in uno stagno. Allora ci rendemmo conto che dovevano essere le
    dieci e non eravamo stati svegliati secondo le consuetudini  mattutine
    della  signora Forbes.  Non avevamo udito lo sciacquone del gabinetto,
    né il rubinetto del lavandino, né il rumore delle persiane, né i ferri
    degli stivali e i tre colpi mortali alla porta  col  palmo  della  sua
    mano da negriero. Mio fratello appiccicò l'orecchio al muro, trattenne
    il  respiro per cogliere il minimo segno di vita nella stanza attigua,
    e infine cacciò un sospiro di liberazione.
    «Sistemata!» disse. «L'unica cosa che si sente è il mare.»
    Ci preparammo la colazione poco prima delle undici,  e  poi  scendemmo
    alla  spiaggia  con  due  bombole  di  ossigeno a testa e altre due di
    scorta,  prima che Fulvia Flaminea arrivasse con la sua combriccola di
    gatti  a  far  le  pulizie  in  casa.  Oreste era già all'imbarcadero,
    intento  a  sbudellare  un'orata  di  sei  libbre  che  aveva   appena
    catturato.  Gli  dicemmo  che avevamo aspettato la signora Forbes fino
    alle undici,  e visto che era sempre addormentata  avevamo  deciso  di
    scendere da soli al mare. Gli raccontammo pure che la sera prima aveva
    avuto  una crisi di pianto a tavola,  e che forse aveva dormito male e
    aveva preferito rimanere a letto.  A Oreste  non  interessò  molto  la
    spiegazione,   proprio   come  ci  aspettavamo,   e  ci  accompagnò  a
    vagabondare un po' più di un'ora per i fondali marini. Poi ci disse di
    salire a pranzare,  e se ne andò sulla barchetta a  motore  a  vendere
    l'orata agli alberghi dei turisti.  Dalla scala di pietre lo salutammo
    con la mano, facendogli credere che stavamo per salire a casa,  finché
    non fu scomparso dietro gli scogli. Allora ci sistemammo le bombole di
    ossigeno e continuammo a nuotare senza il permesso di nessuno.
    La   giornata   era   nuvolosa  e  c'era  un  clamor  di  tuoni  scuri
    all'orizzonte,  ma il mare era liscio e diafano e la sua luce era  già
    sufficiente.  Nuotammo  in  superficie  fino  alla  linea  del faro di
    Pantelleria,  svoltammo dopo un centinaio  di  metri  a  destra  e  ci
    immergemmo  dove  calcolavamo  che  avevamo  visto  i siluri da guerra
    all'inizio dell'estate. Erano sempre lì: sei, dipinti di giallo solare
    e con i numeri di serie intatti,  e adagiati sul fondo vulcanico in un
    ordine  così  perfetto che non poteva essere casuale.  Poi proseguimmo
    girando intorno al faro,  in cerca della città sommersa di cui tanto e
    con  tanta  meraviglia  ci  aveva  parlato  Fulvia  Flaminea,  ma  non
    riuscimmo a trovarla. Di lì a due ore,  convinti che non c'erano nuovi
    misteri  da scoprire,  risalimmo in superficie con l'ultima boccata di
    ossigeno.
    Era esploso un temporale estivo mentre nuotavamo, il mare era mosso, e
    frotte di uccelli carnivori volavano con strida feroci sopra  la  scia
    di pesci moribondi sulla spiaggia.  Ma la luce del pomeriggio sembrava
    appena creata, e la vita era bella senza la signora Forbes.  Tuttavia,
    quando  finimmo  di  salire  con  grande  fatica su per la scala degli
    scogli,  vedemmo molta gente in casa e due  automobili  della  polizia
    davanti  alla porta,  e allora fummo per la prima volta consapevoli di
    quanto avevamo fatto.  Mio fratello si  mise  a  tremare  e  cercò  di
    tornare indietro.
    «Io non entro» disse.
    Io,  invece,  ebbi l'ispirazione confusa che ci sarebbe bastato vedere
    il  cadavere  e  saremmo  stati  in  salvo  da  ogni  sospetto.  «Sta'
    tranquillo»  gli  dissi.  «Respira  profondamente,  e pensa solo a una
    cosa: noi non ne sappiamo nulla.»
    Nessuno ci badò.  Posammo le bombole di ossigeno,  le  maschere  e  le
    pinne, ed entrammo dalla veranda laterale, dove c'erano due uomini che
    fumavano  seduti  per terra accanto a una barella da campo.  Allora ci
    rendemmo conto che c'era un'ambulanza davanti alla porta del  retro  e
    diversi militari armati di fucili.  Nel salotto, le donne del vicinato
    pregavano in dialetto sedute sulle seggiole che erano  state  disposte
    contro  la  parete,  e  i  loro uomini erano ammucchiati nel cortile a
    parlare di cose che nulla avevano a che vedere con la  morte.  Strinsi
    più forte la mano di mio fratello,  che era dura e gelida, ed entrammo
    in casa dalla porta del retro.  La nostra camera era  aperta  e  nelle
    stesse  condizioni  in  cui  l'avevamo lasciata al mattino.  In quella
    della signora Forbes,  che veniva subito dopo,  c'era  un  carabiniere
    armato  sulla  soglia,  ma  la  porta  stava  aperta.  Ci  affacciammo
    all'interno col cuore oppresso,  e ci rimase appena il tempo di  farlo
    che  Fulvia  Flaminea  uscì  come una raffica dalla cucina e chiuse la
    porta con un grido di terrore:
    «Per l'amor di Dio, figlioli, non guardatela!»
    Era troppo tardi.  Mai,  nel resto della nostra vita,  avremmo  potuto
    dimenticare  quanto  vedemmo  in  quell'istante fugace.  Due uomini in
    borghese stavano misurando la distanza dal letto alla  parete  con  un
    metro a nastro, mentre un altro scattava fotografie con un apparecchio
    dalla  pezza  nera  come  quella dei fotografi dei parchi.  La signora
    Forbes non stava sul letto disfatto.  Era distesa a terra  di  fianco,
    nuda  in  una  pozza  di sangue secco che aveva completamente tinto il
    pavimento della stanza,  e aveva il  corpo  crivellato  da  pugnalate.
    Erano ventisei ferite mortali,  e dalla quantità e dall'accanimento si
    notava che erano state inferte con la furia di un amore senza  quiete,
    e  che  la  signora  Forbes  le aveva ricevute con la stessa passione,
    senza neppure gridare,  senza piangere,  recitando Schiller con la sua
    bella voce da soldato, consapevole che era il prezzo inesorabile della
    sua estate felice.

    1976.










    La luce è come l'acqua.

    A Natale i bambini chiesero di nuovo una barca a remi.
    «D'accordo»  disse  il  papà,  «la  compreremo quando faremo ritorno a
    Cartagena.»
    Totó,  di nove anni,  e Joel,  di sette,  erano più decisi di quanto i
    loro genitori credessero.
    «No» dissero in coro. «Ne abbiamo bisogno adesso e qui.»
    «Per  cominciare»  disse  la  madre,  «qui  l'unica acqua navigabile è
    quella che esce dalla doccia.»
    Sia lei sia il marito avevano ragione.  Nella  casa  di  Cartagena  de
    Indias c'era un cortile con un molo sulla baia,  e un attracco per due
    grossi yacht. Invece qui a Madrid vivevano stretti al quinto piano del
    numero 47 del Paseo de la Castellana.  Ma alla  fine  né  lui  né  lei
    avevano  potuto  rifiutare,  perché  avevano promesso loro una barca a
    remi col sestante e la bussola,  se avessero ottenuto  l'alloro  della
    terza  elementare,  e l'avevano ottenuto.  Sicché il papà comprò tutto
    senza dire nulla alla moglie, che era la più restia a pagare debiti di
    gioco. Era una bella barca di alluminio con un filo dorato sulla linea
    di galleggiamento.
    «La barca è nel garage» rivelò il papà durante il pranzo. «Il problema
    è che non c'è verso di portarla fin qui  con  l'ascensore  né  per  le
    scale, e nel garage non c'è più spazio disponibile.»
    Tuttavia,  il  pomeriggio del sabato successivo i bambini invitarono i
    compagni affinché li aiutassero a  trasportare  la  barca  su  per  le
    scale, e arrivarono fino alla camera di servizio.
    «Complimenti» disse il papà. «E adesso che facciamo?»
    «Adesso nulla» dissero i bambini.  «Volevamo solo avere la barca nella
    stanza, ed eccola lì.»
    La sera del mercoledì, come tutti i mercoledì,  i genitori andarono al
    cinema.  I  bambini,  padroni  e signori della casa,  chiusero porte e
    finestre,  e ruppero la lampadina accesa di una lampada  del  salotto.
    Uno  zampillo  di  luce  dorata  e  fresca  come  l'acqua sgorgò dalla
    lampadina rotta, e lo lasciarono scorrere finché il livello non arrivò
    a quattro palmi. Allora interruppero la corrente, spinsero la barca, e
    navigarono con agio fra le isole della casa.
    Questa avventura favolosa fu il risultato di una mia leggerezza quando
    avevo  partecipato  a  un  seminario  sulla  poesia   degli   utensili
    domestici.  Totó  mi  aveva  domandato  come mai per accendere la luce
    bastava pigiare un bottone,  e io  non  avevo  avuto  il  coraggio  di
    pensarci due volte.
    «La luce è come l'acqua» gli avevo risposto: «si apre il rubinetto, ed
    esce».
    E  così  continuarono  a  navigare  ogni  mercoledì sera,  imparando a
    maneggiare il sestante e la bussola,  finché i genitori non  tornavano
    dal cinema e li trovavano addormentati come angioletti di terra ferma.
    Mesi dopo, ansiosi di spingersi oltre, chiesero un equipaggiamento per
    la pesca subacquea.  Completo: maschere,  pinne, bombole di ossigeno e
    fucili ad aria compressa.
    «Non mi piace che teniate nella camera di servizio una  barca  a  remi
    che  non vi serve a nulla» disse il padre.  «Ma il peggio è che volete
    pure equipaggiamenti da palombari.»
    «E se otteniamo la gardenia d'oro del primo semestre?» disse Joel.
    «No» disse la madre, spaventata. «Basta così.»
    Il padre le rimproverò la sua intransigenza.
    «E' che questi bambini non si guadagnano neppure un  chiodo  solo  per
    compiere  il loro dovere» disse lei,  «ma per un capriccio sono capaci
    di guadagnarsi perfino la seggiola del maestro.»
    Alla fine i genitori non dissero né sì né no.  Ma  Totó  e  Joel,  che
    erano stati gli ultimi nei due anni precedenti, in luglio ottennero le
    due gardenie d'oro e il riconoscimento pubblico del direttore.  Quella
    stessa sera,  senza che li avessero chiesti di nuovo,  trovarono nella
    loro   stanza   gli   equipaggiamenti  da  palombari  nell'imballaggio
    originale. Sicché il mercoledì successivo,  mentre i genitori vedevano
    "Ultimo tango a Parigi", riempirono l'appartamento fino all'altezza di
    due braccia, si immersero come squali docili sotto i mobili e i letti,
    e  riscattarono  dal  fondo  della  luce le cose che per anni si erano
    perse nel buio.
    Alla premiazione finale i fratelli furono acclamati come  esempio  per
    la  scolaresca,  e consegnarono loro eccellenti diplomi.  Questa volta
    non dovettero chiedere nulla,  perché i genitori li interpellarono  su
    cosa volevano.  Furono così ragionevoli, che chiesero soltanto di fare
    una festa in casa insieme ai compagni.
    Il papà, da solo con la moglie, era raggiante.
    «E' una prova di maturità» disse.
    «Che Dio ti ascolti» disse la madre.
    Il mercoledì successivo,  mentre i genitori vedevano "La battaglia  di
    Algeri", la gente che passò per la Castellana vide una cascata di luce
    che  ricadeva  da un vecchio edificio nascosto fra gli alberi.  Usciva
    dai balconi, si spargeva a fiotti sulla facciata,  e si incanalò lungo
    l'ampio  viale  in  un  torrente  dorato che illuminò la città fino al
    Guadarrama.
    Chiamati d'urgenza, i pompieri forzarono la porta del quinto piano,  e
    trovarono  la  casa  ricolma di luce fino al soffitto.  Il divano e le
    poltrone ricoperte di pelle di leopardo galleggiavano  nel  salotto  a
    diversi  livelli,  fra le bottiglie del bar e il pianoforte a coda col
    suo scialle di Manila che  fluttuava  a  mezz'acqua  come  una  medusa
    d'oro.  Gli  utensili  domestici,  nella  pienezza  della loro poesia,
    volavano con ali proprie nel cielo della  cucina.  Le  finte  armi  da
    guerra,  che i bambini usavano per ballare,  galleggiavano alla deriva
    fra i pesci variopinti liberati dall'acquario della  mamma,  ed  erano
    gli  unici  che nuotavano vivi e felici nella vasta palude illuminata.
    Nel  bagno  galleggiavano  gli  spazzolini  da  denti  di   tutti,   i
    preservativi del papà,  le boccette di crema e la dentiera di ricambio
    della  mamma,  e  il  televisore  della  camera  da  letto  principale
    galleggiava di sghembo, ancora acceso sull'ultimo episodio del film di
    mezzanotte proibito ai bambini.
    In fondo al corridoio,  sulla superficie dell'acqua, Totó era seduto a
    poppa della barca,  stringendo i remi  e  con  la  maschera  infilata,
    cercando il faro del porto fin dove gli bastò l'aria della bombola,  e
    Joel galleggiava a prua cercando ancora l'altezza della stella  polare
    col  sestante,  e  galleggiavano  per tutta la casa i loro trentasette
    compagni di classe,  eternizzati nell'istante di far la pipì nel  vaso
    dei gerani, di cantare l'inno della scuola col testo cambiato in versi
    di  burla  contro  il  direttore,  di bere di nascosto un bicchiere di
    brandy dalla bottiglia del papà.  Avevano aperto così  tante  luci  al
    contempo  che  la casa era traboccata,  e tutta la quarta classe della
    scuola elementare di San Julián el Hospitalario era annegata al quinto
    piano del numero 47 del Paseo de la Castellana.  A Madrid,  in Spagna,
    una città remota dalle estati infuocate e dai venti gelidi, senza mare
    né fiume,  e i cui aborigeni di terra ferma non sono mai stati maestri
    nella scienza di navigare nella luce.

    dicembre 1978.


















    La traccia del tuo sangue sulla neve.

    All'imbrunire,  quando arrivarono  alla  frontiera,  Nena  Daconte  si
    accorse   che   il   dito   con  l'anello  matrimoniale  continuava  a
    sanguinarle. Il poliziotto con una coperta di lana grezza sul tricorno
    di vernice esaminò i passaporti alla luce di una lanterna  a  carburo,
    facendo  un  grande sforzo per non essere travolto dalla pressione del
    vento che soffiava dai Pirenei.  Pur  trattandosi  di  due  passaporti
    diplomatici   in  regola,   il  poliziotto  sollevò  la  lanterna  per
    controllare che le fotografie somigliassero alle facce.  Nena  Daconte
    era  quasi una bambina,  con certi occhi da uccello felice e una pelle
    di melassa che irraggiava ancora il solleone dei Caraibi  nel  lugubre
    imbrunire di gennaio, ed era avvolta fino al collo in una pelliccia di
    visone  che non si sarebbe potuta comprare con lo stipendio di un anno
    di tutta la guarnigione della frontiera.  Billy Sánchez de Avila,  suo
    marito,  che guidava la macchina,  era di un anno più giovane, e quasi
    altrettanto bello,  e indossava una giacca  a  quadri  scozzesi  e  un
    berretto da baseball.  Contrariamente alla moglie, era alto e atletico
    e aveva la mascella di ferro  dei  bellimbusti  timidi.  Ma  quel  che
    meglio  rivelava  la condizione di entrambi era l'automobile platinata
    il cui interno esalava un respiro di bestia viva,  come non se n'erano
    viste  su quella frontiera di poveri.  I sedili posteriori erano zeppi
    di valigie troppo nuove e molte scatole di regali  ancora  da  aprire.
    C'era,  inoltre,  il  sassofono  tenore  che  era  stato  la  passione
    dominante nella vita di Nena Daconte prima che  soccombesse  all'amore
    contrastato del suo tenero organizzatore di combriccole da spiaggia.
    Quando il poliziotto gli ebbe restituito i passaporti timbrati,  Billy
    Sánchez domandò dove potevano trovare una  farmacia  per  medicare  il
    dito  della  moglie,   e  il  poliziotto  gli  gridò  controvento  che
    domandassero a Hendaye,  dalla parte  francese.  Ma  i  poliziotti  di
    Hendaye erano seduti intorno al tavolo in maniche di camicia,  intenti
    a giocare a carte mentre mangiavano pane inzuppato in tazzoni di  vino
    dentro  una  garitta  di  vetro  calda e ben illuminata,  e bastò loro
    vedere le dimensioni e la marca  della  macchina  per  far  segno  che
    entrassero pure in Francia.  Billy Sánchez fece risuonare più volte il
    clacson, ma i poliziotti non capirono che stavano chiamandoli e uno di
    loro aprì il vetro e gridò con rabbia maggiore del vento:
    «"Merde! Allez-vous-en"!»
    Allora Nena Daconte uscì dall'automobile avvolta nella pelliccia  fino
    alle orecchie, e domandò al poliziotto in un francese perfetto dov'era
    una  farmacia.  Il poliziotto rispose per abitudine con la bocca piena
    di pane che non era cosa di sua competenza,  tanto meno con una simile
    burrasca,  e  chiuse  il  finestrino.  Ma  poi fissò con attenzione la
    ragazza che si succhiava il dito ferito avvolta nello  scintillio  dei
    visoni  naturali,  e  dovette confonderla con un'apparizione magica in
    quella notte da tregenda,  perché subito cambiò umore.  Spiegò che  la
    città  più  vicina  era  Biarritz,  ma che in pieno inverno e con quel
    vento da lupi forse non si sarebbe trovata una farmacia aperta fino  a
    Bayonne, un po' più avanti.
    «E' una cosa grave?» domandò.
    «Nulla»  sorrise  Nena  Daconte,  mostrandogli il dito con l'anello di
    diamanti sul cui polpastrello era appena percettibile la ferita  della
    rosa. «E' solo una puntura.»
    Prima  di  Bayonne riprese a nevicare.  Non erano ancora le sette,  ma
    trovarono le  vie  deserte  e  le  case  sbarrate  dalla  furia  della
    tormenta,  e  dopo  molti giri senza scoprire una farmacia decisero di
    proseguire.  Billy Sánchez si rallegrò  dinanzi  a  quella  decisione.
    Aveva  una  passione insaziabile per le automobili rare e un padre con
    troppi sensi di colpa e soldi in abbondanza  per  compiacerlo,  e  non
    aveva  mai  guidato  nulla  di  simile  a  quella Bentley convertibile
    regalata per le nozze.  Era tale la sua ebbrezza al  volante  che  più
    avanzava e meno stanco si sentiva. Era pronto ad arrivare quella notte
    a  Bordeaux,   dove  avevano  prenotato  la  suite  nuziale  all'Hotel
    Splendid,  e non ci sarebbero stati venti contrari ne sufficiente neve
    in  cielo  per  impedirglielo.  Nena  Daconte,  invece,  era  esausta,
    soprattutto per via dell'ultimo tratto di strada dopo Madrid,  che era
    un cornicione da capre frustato dalla grandine. Sicché dopo Bayonne si
    arrotolò un fazzoletto intorno all'anulare serrandolo bene per fermare
    il  sangue  che  continuava  a uscire,  e si addormentò profondamente.
    Billy Sánchez se ne accorse solo  verso  mezzanotte,  dopo  che  aveva
    finito  di nevicare e il vento era d'improvviso calato fra i pini e il
    cielo delle lande si era riempito  di  stelle  glaciali.  Era  passato
    davanti alle luci addormentate di Bordeaux, ma si era fermato solo per
    fare  il pieno a un distributore lungo la strada,  perché gli rimaneva
    ancora forza per arrivare fino a Parigi senza  riprendere  fiato.  Era
    così  felice del suo grosso giocattolo da venticinquemila sterline che
    non si domandò neppure se lo sarebbe stata la creatura radiosa che gli
    dormiva accanto con la benda all'anulare inzuppata di sangue, e il cui
    sonno di adolescente, per la prima volta, era attraversato da raffiche
    di incertezza.
    Si erano sposati tre giorni prima,  a diecimila chilometri  di  lì,  a
    Cartagena  de Indias,  dinanzi allo stupore dei genitori di lui e alla
    delusione  di  quelli  di  lei,   e  con  la   benedizione   personale
    dell'arcivescovo  primate.   Nessuno,   tranne  loro  due,  capiva  il
    fondamento reale né conobbe l'origine  di  quell'amore  imprevedibile.
    Era cominciato tre mesi prima delle nozze, una domenica al mare in cui
    la  cricca  di  Billy  Sánchez  aveva  preso  d'assalto gli spogliatoi
    femminili dei bagni di Marbella.  Nena Daconte aveva  appena  compiuto
    diciotto anni,  era tornata da poco dal collegio della Châtellerie,  a
    Saint-Blaise, in Svizzera, parlando quattro lingue senza accento e con
    un dominio perfetto del sassofono tenore,  e quella era la  sua  prima
    domenica  al mare dopo il ritorno.  Si era completamente spogliata per
    infilarsi il costume quando cominciarono l'esplosione di panico  e  le
    grida di abbordaggio nelle cabine accanto,  ma non capì cosa succedeva
    finché il pannello della sua porta non si aprì in mille schegge e vide
    dritto davanti a sé il bandito più bello che  si  potesse  immaginare.
    L'unica  cosa che portava addosso era un esiguo slip di finta pelle di
    leopardo,  e aveva il corpo placido ed elastico  e  il  colore  dorato
    della  gente  di  mare.  Sul  pugno del braccio destro,  dove aveva un
    bracciale metallico da gladiatore romano, teneva arrotolata una catena
    di ferro che gli serviva da  arma  mortale,  e  appesa  al  collo  una
    medaglia  senza santo che palpitava in silenzio sullo spavento del suo
    cuore.  Avevano frequentato insieme le  scuole  elementari  e  avevano
    rotto  molte  pignatte  alle  feste  di  compleanno,  perché  entrambi
    appartenevano alla stirpe provinciale che disponeva a suo piacere  del
    destino della città fin dai tempi della colonia,  ma avevano smesso di
    vedersi da così tanti anni che a prima vista non si riconobbero.  Nena
    Daconte rimase in piedi,  immobile,  senza far nulla per nascondere la
    sua nudità intensa.  Billy Sánchez eseguì allora il suo rito  puerile:
    si abbassò lo slip di leopardo e le mostrò il suo rispettabile animale
    eretto. Lei lo guardò fisso e senza paura.
    «Ne  ho  visti  di  più  lunghi  e di più grossi» disse,  dominando il
    terrore.  «Sicché  pensa  bene  a  cosa  farai,  perché  con  me  devi
    comportarti meglio di un negro.»
    In realtà, Nena Daconte non solo era vergine, ma fino allora non aveva
    mai visto un uomo nudo, però la sfida si rivelò efficace. L'unica cosa
    che  a  Billy  Sánchez  venne  in  mente di fare fu tirare un pugno di
    rabbia contro la parete con la catena arrotolata intorno alla mano,  e
    si incrinò le ossa.  Lei lo portò con la sua macchina all'ospedale,  e
    lo aiutò a sopportare la convalescenza,  e infine impararono insieme a
    far  l'amore  con  buona  intesa.  Passarono  i pomeriggi difficili di
    giugno  sulla  terrazza  interna  della  casa  dove  erano  morte  sei
    generazioni  di  patrizi della famiglia di Nena Daconte,  lei suonando
    canzoni  alla  moda  col  sassofono,  e  lui  con  la  mano  ingessata
    contemplandola  dall'amaca  con  uno  stupore senza sollievo.  La casa
    aveva numerose finestre ad altezza d'uomo che davano sullo  stagno  di
    marciume  della  baia,  ed  era  una  delle  più  grandi e antiche del
    quartiere di La Manga,  e sicuramente la più brutta.  Ma  la  terrazza
    dalle  piastrelle  a scacchiera dove Nena Daconte suonava il sassofono
    era una gora nel caldo delle quattro, e dava su un cortile dalle ombre
    grandi con manghi e banani,  sotto i quali c'era  una  tomba  con  una
    lapide  senza  nome,  precedente  la casa e la memoria della famiglia.
    Persino i meno esperti in musica pensavano che il suono del  sassofono
    era  anacronistico  in  una  casa  di  tale  rango.  «Fischia  come un
    battello» aveva detto la nonna di Nena Daconte quando l'aveva  sentito
    per  la  prima volta.  Sua madre aveva tentato invano di far sì che lo
    suonasse altrimenti,  e non come  lei  faceva  per  comodità,  con  la
    sottana rialzata fino alle cosce e le ginocchia divaricate,  e con una
    sensualità che non le sembrava  essenziale  per  la  musica.  «Non  mi
    importa  quale  strumento  suoni» le diceva,  «purché lo suoni a gambe
    chiuse.»  Ma   furono   quelle   arie   da   addii   di   battello   e
    quell'accanimento  d'amore  a permettere a Nena Daconte di spezzare il
    guscio amaro di Billy Sánchez.  Sotto la triste reputazione  di  bullo
    che lui aveva ben sorretta dalla confluenza di due nomi illustri,  lei
    scoprì un orfano spaventato e tenero.  Arrivarono a  conoscersi  tanto
    mentre gli si rinsaldavano le ossa della mano, che lui stesso si stupì
    della  fluidità  con  cui sopraggiunse l'amore quando lei lo portò nel
    suo letto di signorina in un pomeriggio di piogge in cui erano rimasti
    soli in casa.  Tutti i giorni a quell'ora,  per quasi  due  settimane,
    ruzzarono  nudi  sotto  lo  sguardo attonito dei ritratti di guerrieri
    civili e nonne insaziabili che li avevano preceduti  nel  paradiso  di
    quel  letto storico.  Anche nelle pause dell'amore rimanevano nudi con
    le finestre aperte a respirare la brezza di relitti  di  barche  della
    baia, il suo odore di merda, e ad ascoltare nel silenzio del sassofono
    i  rumori  quotidiani  del  cortile,  la  nota unica del rospo sotto i
    banani,  la goccia d'acqua sulla tomba di nessuno,  i  passi  naturali
    della vita che prima non avevano avuto il tempo di conoscere.
    Quando  i  genitori  di  Nena  Daconte tornarono a casa,  loro avevano
    progredito tanto nell'amore che il mondo aveva posto solo per  quello,
    e  lo  facevano  a  qualsiasi  ora  e da qualsiasi parte,  cercando di
    inventarlo un'altra volta ogni volta che lo  facevano.  All'inizio  lo
    fecero  come  meglio potevano nelle macchine sportive con cui il padre
    di Billy Sánchez tentava di acquietare le proprie colpe.  Poi,  quando
    le  macchine divennero per loro troppo facili,  si infilavano di notte
    nelle cabine deserte di Marbella dove il destino li aveva messi  l'uno
    dinanzi  all'altra  per  la  prima  volta,  e  durante il carnevale si
    infilarono  mascherati  persino  nelle  camere  d'affitto  dell'antico
    quartiere  degli  schiavi  di  Getsemaní,  sotto  la  protezione delle
    ruffiane che sino a pochi mesi prima dovevano sorbirsi  Billy  Sánchez
    con  la  sua banda di metallari.  Nena Daconte si abbandonò agli amori
    furtivi con la stessa  devozione  frenetica  che  prima  sprecava  col
    sassofono,  al  punto che il suo bandito addomesticato fini per capire
    quel che lei volle dirgli quando gli disse che doveva comportarsi come
    un negro.  Billy Sánchez le corrispose sempre e bene e con  lo  stesso
    entusiasmo.  Ormai  sposati,  compirono  il dovere di amarsi mentre le
    hostess dormivano in  mezzo  all'Atlantico,  laboriosamente  chiusi  e
    morti  più  dal  ridere che di piacere nel gabinetto dell'aereo.  Solo
    loro sapevano allora, ventiquattro ore dopo le nozze, che Nena Daconte
    era incinta da due mesi.
    Sicché  quando  arrivarono  a  Madrid  si  sentivano   molto   lontani
    dall'essere  due  amanti  sazi,  ma  avevano  sufficienti  scorte  per
    comportarsi come due sposini puri.  I  genitori  di  entrambi  avevano
    previsto tutto.  Prima dello sbarco, un funzionario di protocollo salì
    nello scompartimento di prima classe per portare  a  Nena  Daconte  la
    pelliccia di visone bianco con frange di un nero luminoso,  che era il
    regalo di nozze dei suoi genitori.  A Billy Sánchez portò un  giaccone
    di  pelle che era la novità di quell'inverno,  e le chiavi senza marca
    di una macchina a sorpresa che lo aspettava all'aeroporto.
    La delegazione diplomatica  del  loro  paese  li  accolse  nel  salone
    ufficiale.  L'ambasciatore e sua moglie non solo erano amici da sempre
    della famiglia di entrambi,  ma lui  era  pure  il  medico  che  aveva
    assistito  alla  nascita  di Nena Daconte,  e l'attese con un mazzo di
    rose così  raggianti  e  fresche  che  persino  le  gocce  di  rugiada
    sembravano  artificiali.  Lei li salutò entrambi con baci da burla,  a
    disagio nel suo ruolo un po' prematuro di sposina,  e poi  accettò  le
    rose.  Mentre le prendeva si punse il dito con una spina del gambo, ma
    risolse la situazione con un espediente affascinante.
    «L'ho fatto apposta« disse, «affinché si notasse il mio anello.»
    Infatti,  la delegazione diplomatica al completo ammirò  lo  splendore
    dell'anello, che doveva costare una fortuna, non tanto per il tipo dei
    diamanti quanto per la loro antichità ben conservata.  Ma nessuno notò
    che il dito cominciava a sanguinare.  L'attenzione di tutti si  spostò
    poi  verso la macchina nuova.  L'ambasciatore era stato così spiritoso
    da portarla all'aeroporto e da farla avvolgere nel cellophane  con  un
    enorme nastro dorato.  Billy Sánchez non apprezzò la sua finezza.  Era
    così ansioso di conoscere la macchina che lacerò l'involucro  con  uno
    strappo  e  rimase  senza  fiato.   Era  la  Bentley  convertibile  di
    quell'anno con tappezzeria di vero cuoio.  Il cielo sembrava un  manto
    di cenere, il Guadarrama mandava un vento tagliente e gelido, e non si
    stava  bene all'aperto,  ma Billy Sánchez non sapeva ancora cos'era il
    freddo.  Tenne la delegazione diplomatica nel parcheggio senza  tetto,
    inconsapevole del fatto che stavano congelandosi per cortesia,  finché
    non ebbe finito  di  conoscere  la  macchina  nei  suoi  dettagli  più
    reconditi.  Poi,  l'ambasciatore  gli  si sedette accanto per guidarlo
    fino alla residenza ufficiale in cui era previsto un  pranzo.  Durante
    il tragitto gli indicò i luoghi più noti della città,  ma lui sembrava
    attento solo alla magia della macchina.
    Era la prima volta che si allontanava dalla sua terra. Era passato per
    tutte le scuole  private  e  pubbliche,  ripetendo  sempre  la  stessa
    classe,  finché era rimasto a galleggiare in un limbo di disamore.  La
    prima visione di una città  diversa  dalla  sua,  i  blocchi  di  case
    cinerognole con le luci accese in pieno giorno, gli alberi spelati, il
    mare distante, tutto accresceva in lui una sensazione di abbandono che
    si  sforzava  di tenere al margine del cuore.  Comunque,  di lì a poco
    cadde  senza  accorgersene  nella  prima  trappola   dell'oblio.   Era
    sopraggiunta  una  tormenta  istantanea  e silenziosa,  la prima della
    stagione,  e quando uscirono  dalla  casa  dell'ambasciatore  dopo  il
    pranzo,  per  intraprendere  il  viaggio per la Francia,  trovarono la
    città coperta da una neve raggiante. Billy Sánchez dimenticò allora la
    macchina,  e in presenza  di  tutti,  cacciando  grida  di  giubilo  e
    buttandosi  manciate di neve in testa,  si rotolò in mezzo alla strada
    col giaccone addosso.
    Nena Daconte  si  accorse  per  la  prima  volta  che  il  dito  stava
    sanguinandole,  quando  abbandonarono  Madrid in un pomeriggio che era
    diventato  diafano  dopo  la  tormenta.   Si   stupì,   perché   aveva
    accompagnato  col  sassofono la moglie dell'ambasciatore,  cui piaceva
    cantare arie d'opera in italiano dopo  i  pranzi  ufficiali,  e  aveva
    appena notato il fastidio all'anulare.  Poi, mentre indicava al marito
    le strade più brevi per la frontiera,  si succhiava il dito in maniera
    inconsapevole  ogni  volta  che  le  sanguinava,  e solo quando furono
    arrivati ai Pirenei pensò di cercare una farmacia. Poi aveva ceduto al
    sonno rinviato degli ultimi giorni,  e quando d'improvviso si  svegliò
    con l'impressione da incubo che la macchina procedesse sull'acqua, per
    un bel po' non si ricordò più del fazzoletto annodato intorno al dito.
    Vide sull'orologio luminoso del quadro che erano le tre passate,  fece
    i suoi calcoli mentali,  e solo allora capì che avevano superato di un
    bel  pezzo  Bordeaux,  e  anche  Angoulême  e Poitiers,  e che stavano
    passando per la diga della Loira  inondata  dalla  piena.  Il  fulgore
    della luna filtrava attraverso la nebbia, e le sagome dei castelli fra
    i pini sembravano da racconti di fate.  Nena Daconte, che conosceva la
    regione a memoria,  calcolò che si trovavano ormai a circa tre ore  da
    Parigi, e Billy Sánchez era sempre impavido al volante.
    «Sei  un irresponsabile» gli disse.  «Sono più di undici ore che guidi
    senza mangiare nulla.»
    Era ancora sorretto dall'ebbrezza della  macchina  nuova.  Pur  avendo
    dormito  poco  e  male  sull'aereo,  si sentiva vispo e più che mai in
    forze per arrivare a Parigi all'alba.
    «Mi dura ancora il pranzo dell'ambasciata»  disse.  E  aggiunse  senza
    alcuna  logica:  «In fin dei conti,  a Cartagena stanno appena uscendo
    dal cinema. Lì devono essere le dieci».
    Tuttavia, Nena Daconte temeva che si addormentasse guidando.  Aprì una
    scatola  fra  i  tanti regali che avevano ricevuto a Madrid e cercò di
    mettergli in bocca un pezzo di arancia candita. Ma lui si sottrasse.
    «Gli uomini non mangiano dolci» disse.
    Poco prima di Orléans svanì la nebbia, e una luna grandissima illuminò
    i vivai coperti di neve,  ma il traffico si fece più difficile per via
    dell'affluenza  degli enormi camion di legumi e delle cisterne di vino
    che si dirigevano a Parigi.  Nena Daconte avrebbe  voluto  aiutare  il
    marito al volante,  ma non si azzardò neppure a insinuarlo, perché lui
    l'aveva avvertita fin dalla prima volta che erano usciti  insieme  che
    non  c'è  umiliazione  maggiore  per  un  uomo  che lasciar guidare la
    moglie.  Si sentiva lucida dopo quasi cinque  ore  di  buon  sonno,  e
    inoltre  era  contenta  di  non  essersi  fermata  in un albergo della
    provincia francese,  che conosceva fin da bambina in  numerosi  viaggi
    con i genitori.  «Non ci sono paesaggi più belli al mondo» diceva, «ma
    uno può morire di sete senza trovare anima viva che gli dia gratis  un
    bicchiere  d'acqua.» Ne era così convinta che all'ultimo momento aveva
    messo una saponetta e un rotolo di  carta  igienica  nella  valigetta,
    perché  negli  alberghi francesi non c'era mai sapone,  e la carta dei
    gabinetti erano i  giornali  della  settimana  precedente  tagliati  a
    quadratini  e  infilati in un gancio.  L'unica cosa che rimpiangeva in
    quel momento era aver  sprecato  una  notte  intera  senza  amore.  La
    risposta del marito fu immediata.
    «Proprio  ora  stavo  pensando  che  deve essere una favola scopare in
    mezzo alla neve» disse. «Facciamolo qui, se ti va.»
    Nena Daconte ci pensò seriamente. Al bordo della strada, la neve sotto
    la luna aveva un aspetto soffice e caldo,  ma a mano  a  mano  che  si
    avvicinavano  ai  sobborghi  di  Parigi  il traffico era più fitto,  e
    c'erano  nuclei  di  fabbriche  illuminate  e   numerosi   operai   in
    bicicletta.  Se  non  fosse  stato  inverno,  sarebbe  già stato pieno
    giorno.
    «Ormai è meglio aspettare fino  a  Parigi»  disse  Nena  Daconte.  «Al
    calduccio  e  dentro  un  letto  con  le lenzuola pulite come la gente
    sposata.»
    «E' la prima volta che mi dici di no» disse lui.
    «Certo» replicò lei. «E' la prima volta che siamo sposati.»
    Poco prima dell'alba si lavarono la faccia e orinarono in una  locanda
    per  strada,  e  presero  caffè  con  croissant  caldi al banco dove i
    camionisti facevano colazione con vino  rosso.  Nena  Daconte  si  era
    accorta  nel bagno che aveva macchie di sangue sulla camicetta e sulla
    sottana, ma non cercò di lavarle. Buttò nella spazzatura il fazzoletto
    inzuppato,  si trasferì l'anello matrimoniale sulla mano sinistra e si
    lavò per bene il dito ferito con acqua e sapone.  La puntura era quasi
    invisibile.  Tuttavia appena tornati in macchina riprese a sanguinare,
    sicché Nena Daconte lasciò il braccio penzolante fuori dal finestrino,
    convinta che l'aria glaciale dei vivai avesse virtù cauterizzanti.  Fu
    un altro espediente vano,  ma ancora  non  si  allarmò.  «Se  qualcuno
    volesse  trovarci sarebbe facilissimo» disse col suo fascino naturale.
    «Gli basterebbe seguire la traccia del mio  sangue  sulla  neve!»  Poi
    pensò  meglio  a  quanto aveva detto,  e il suo viso fiorì nelle prime
    luci dell'alba.
    «Immagina» disse: «una traccia di sangue sulla neve da Madrid  fino  a
    Parigi. Non ti sembra bello per una canzone?»
    Non ebbe il tempo di ripensarci.  Ai sobborghi di Parigi,  il dito era
    una sorgente incontenibile,  e lei sentì  davvero  che  l'anima  stava
    uscendole  dalla  ferita.  Aveva tentato di interrompere il flusso col
    rotolo di carta igienica che portava nella valigetta,  ma  ci  metteva
    più  tempo  a bendarsi il dito che a buttar via dal finestrino i pezzi
    di carta insanguinata. Gli abiti che indossava, la pelliccia, i sedili
    della macchina,  stavano infradiciandosi a poco a poco,  ma in maniera
    irreparabile.  Billy  Sánchez  si  spaventò sul serio e insistette per
    cercare una farmacia,  ma lei allora già sapeva che quello non era  un
    problema per farmacisti.
    «Siamo quasi alla Porte d'Orléans» disse. «Continua dritto, per Avenue
    du Général Leclerc, che è la più larga e con molti alberi, e poi io ti
    dirò quel che devi fare.»
    Fu  il  tratto  più  arduo  di  tutto il viaggio.  L'Avenue du Général
    Leclerc  era  un  groviglio  infernale   di   automobili   piccole   e
    motociclette,  imbottigliate  nei  due  sensi,  e di camion enormi che
    tentavano di arrivare ai mercati centrali.  Billy Sánchez si innervosì
    talmente  allo strepito inutile dei clacson che gridando si insultò in
    lingua da metallari con diversi autisti e cercò  persino  di  scendere
    dalla  macchina  per  picchiarsi  con  uno,  ma  Nena Daconte riuscì a
    convincerlo che i francesi erano le persone più grossolane del  mondo,
    ma  che  non si picchiavano mai.  Fu un'altra prova del suo buonsenso,
    perché in quel momento Nena  Daconte  stava  facendo  sforzi  per  non
    perdere coscienza.
    Solo  per  uscire  dall'incrocio  di Léon de Belfort ebbero bisogno di
    oltre un'ora.  I caffè e i negozi erano illuminati come se fosse stata
    mezzanotte,  perché  era  un  martedì  tipico  del  gennaio di Parigi,
    coperto e sporco,  e con una pioviggine  tenace  che  non  riusciva  a
    tradursi in neve. Ma l'Avenue Denfer-Rochereau era più sgombra, e dopo
    pochi isolati Nena Daconte indicò al marito di girare a destra,  e lui
    parcheggiò davanti all'entrata del  pronto  soccorso  di  un  ospedale
    enorme e cupo.
    Dovette  essere  aiutata  per  uscire dalla macchina,  ma non perse la
    serenità né la lucidità.  Mentre arrivava il medico di turno,  distesa
    sulla   barella   a  ruote,   rispose  a  tutte  le  consuete  domande
    dell'infermiera sulla sua identità e sui precedenti della sua  salute.
    Billy  Sánchez le portò la borsetta e le strinse la mano sinistra dove
    allora aveva l'anello matrimoniale, e la sentì languida e fredda, e le
    sue labbra avevano perso il colore.  Le rimase accanto,  con  la  mano
    nella sua, finché non arrivò il medico di turno e le fece un controllo
    rapido  all'anulare  ferito.  Era un uomo molto giovane,  con la pelle
    color del rame antico e la testa pelata.  Nena Daconte non gli  prestò
    attenzione, ma rivolse al marito un sorriso livido.
    «Non  spaventarti»  gli disse,  col suo umorismo indomabile.  «L'unica
    cosa che può capitare è che questo cannibale  mi  tagli  la  mano  per
    mangiarsela.»
    Il medico termino il suo esame,  e allora li sorprese con uno spagnolo
    correttissimo, sebbene dallo strano accento asiatico:
    «No,  ragazzi» disse.  «Questo cannibale  preferisce  morire  di  fame
    piuttosto che tagliare una mano così bella.»
    Loro  si  rabbuiarono,  ma  il  medico  li  tranquillizzò con un gesto
    amabile.  Poi ordinò che portassero via la barella,  e  Billy  Sánchez
    volle andare con lei,  tenendo stretta la mano della moglie. Il medico
    lo arrestò prendendolo per un braccio.
    «Lei no» gli disse. «Va agli interventi d'urgenza.»
    Nena Daconte sorrise di nuovo al marito, e continuò a salutarlo con la
    mano finché la barella non si perse in fondo al corridoio.  Il  medico
    indugiò  a  studiare  i  dati  che  l'infermiera  aveva scritto su una
    scheda. Billy Sánchez lo chiamò.
    «Dottore» gli disse. «E' incinta.»
    «Di quanto?»
    «Due mesi.»
    Il medico non gli diede l'importanza che Billy Sánchez  si  aspettava.
    «Ha fatto bene a dirmelo» disse,  e si avviò dietro la barella.  Billy
    Sánchez rimase lì fermo nella sala lugubre che puzzava  di  sudore  di
    malati,  rimase lì senza sapere cosa fare guardando il corridoio vuoto
    da dove avevano portato via Nena Daconte, e poi si sedette sulla panca
    di legno dove c'erano altre persone in attesa.  Non seppe  per  quanto
    tempo restò lì,  ma quando decise di uscire dall'ospedale era di nuovo
    notte e continuava la pioviggine,  e lui era sempre ignaro persino  di
    che far di se stesso, oppresso dal peso del mondo.
    Nena  Daconte  entrò  alle  9.30 di martedì 7 gennaio,  secondo quanto
    riuscii a constatare anni dopo  negli  archivi  dell'ospedale.  Quella
    prima  notte  Billy  Sánchez dormì nella macchina parcheggiata davanti
    alla porta del pronto soccorso,  e molto presto,  il giorno  dopo,  si
    mangiò  sei  uova  sode e due tazze di caffelatte al bar che trovò più
    vicino,  perché non aveva fatto un pasto  completo  dopo  Madrid.  Poi
    tornò  nella sala del pronto soccorso per vedere Nena Daconte,  ma gli
    fecero capire che doveva rivolgersi all'entrata principale.  Lì trovò,
    infine,  un  asturiano  del  servizio  che  lo  aiutò a intendersi col
    portiere,  e  questi  constatò  che,  in  effetti,  Nena  Daconte  era
    registrata  all'ospedale,  ma  che  si  permettevano  visite  solo  il
    martedì, dalle nove alle quattro. Ossia, di lì a sei giorni.  Cercò di
    vedere  il medico che parlava spagnolo e lo descrisse come un moro con
    la testa pelata,  ma nessuno seppe cosa dirgli con due  dettagli  così
    semplici.
    Tranquillizzato  dalle  notizie secondo cui Nena Daconte compariva nel
    registro, tornò al posto dove aveva lasciato la macchina,  e un agente
    del  traffico  lo costrinse a parcheggiare due isolati più avanti,  in
    una via strettissima e dalla parte dei numeri dispari. Sul marciapiede
    di fronte c'era un edificio restaurato con un'insegna:  Hotel  Nicole.
    Aveva  una sola stella,  e un atrio molto piccolo dove non c'erano che
    un divano e un vecchio pianoforte verticale,  ma il proprietario,  con
    voce flautata, riusciva a intendersi con i clienti di qualsiasi lingua
    a patto che fossero in grado di pagare.  Billy Sánchez si installò con
    undici valigie e nove scatole di regali nell'unica stanza libera,  che
    era  una  mansarda  triangolare  al nono piano,  cui si arrivava senza
    fiato per una scala a spirale che  sapeva  di  schiuma  di  cavolfiori
    bolliti.  Le  pareti  erano  tappezzate  con carte tristi e dall'unica
    finestra non entrava che la luce torbida del cortile interno.  C'erano
    un letto doppio,  un armadio grande,  una seggiola semplice,  un bidet
    portatile e un portacatino con la sua brocca,  sicché l'unico modo per
    stare  dentro  la camera era coricarsi sul letto.  Tutto era,  più che
    vecchio, derelitto,  ma anche pulitissimo,  e con una traccia salutare
    di disinfettante passato da poco.
    La  vita  non sarebbe bastata a Billy Sánchez per decifrare gli enigmi
    di quel mondo fondato sul talento della spilorceria.  Non capì mai  il
    mistero  della  luce  della  scala che si spegneva prima che lui fosse
    arrivato al suo piano,  né  scoprì  il  modo  per  riaccenderla.  Ebbe
    bisogno  di  mezza mattina per imparare che su ogni pianerottolo c'era
    una stanzetta con un gabinetto a sciacquone,  e aveva ormai deciso  di
    usarlo  nelle  tenebre quando scoprì per caso che la luce si accendeva
    tirando il chiavistello all'interno,  affinché  nessuno  la  lasciasse
    accesa  per dimenticanza.  La doccia,  che era all'altra estremità del
    corridoio e che lui si ostinava a usare due volte al  giorno  come  al
    suo  paese,  si  pagava  a  parte  e  in  contanti,  e  l'acqua calda,
    controllata dall'amministrazione,  finiva dopo tre  minuti.  Tuttavia,
    Billy Sánchez ebbe abbastanza comprendonio per capire che quell'ordine
    così diverso dal suo era comunque migliore dell'inclemenza di gennaio,
    e poi si sentiva così confuso e solo che non riusciva a capire come un
    tempo avesse potuto vivere senza la protezione di Nena Daconte.
    Non appena fu salito nella camera,  la mattina del mercoledì, si buttò
    a pancia in giù sul letto col giaccone addosso, pensando alla creatura
    da prodigio che stava dissanguandosi sul marciapiede di fronte,  e ben
    presto cedette a un sonno così naturale che quando si svegliò erano le
    cinque all'orologio,  ma non riuscì a dedurre se fossero le cinque del
    pomeriggio o del mattino,  né di quale giorno della  settimana  né  in
    quale  città  dai  vetri  frustati  dal vento e dalla pioggia.  Attese
    sveglio sul letto, sempre pensando a Nena Daconte, finché constatò che
    in realtà albeggiava.  Allora si recò a far colazione nello stesso bar
    del  giorno prima,  e lì seppe che era giovedì.  Le luci dell'ospedale
    erano accese e aveva smesso di piovere,  sicché rimase  appoggiato  al
    tronco  di  un  castagno  davanti  all'entrata  principale,   da  dove
    entravano e uscivano medici e infermiere  in  camice  bianco,  con  la
    speranza di trovare il medico asiatico che aveva accolto Nena Daconte.
    Non lo vide,  e neppure quel pomeriggio dopo il pranzo, quando dovette
    interrompere l'attesa perché  stava  congelandosi.  Alle  sette  prese
    ancora  caffelatte  e mangiò due uova sode che lui stesso si servì dal
    banco dopo quarantott'ore che stava mangiando sempre  la  stessa  cosa
    nello stesso posto. Quando tornò in albergo per coricarsi trovò la sua
    macchina  sola  su  un marciapiede e tutte le altre sul marciapiede di
    fronte, e c'era il foglietto di una multa sul parabrezza. Il portinaio
    dell'Hotel Nicole faticò a spiegargli che nei giorni dispari del  mese
    si poteva parcheggiare sul marciapiede dai numeri dispari, e il giorno
    successivo sul marciapiede opposto. Tutte quelle trappole razionaliste
    erano incomprensibili per un autentico Sánchez de Avila,  che solo due
    anni  prima  si  era  cacciato  dentro  un  cinema  di  quartiere  con
    l'automobile  ufficiale  del sindaco,  e aveva causato scempi di morte
    dinanzi ai poliziotti impavidi.  Capì ancora meno quando  il  portiere
    dell'albergo  gli consigliò di pagare la multa,  ma di non spostare la
    macchina a quell'ora,  perché avrebbe  dovuto  spostarla  di  nuovo  a
    mezzanotte.  Quella  mattina  all'alba,  per la prima volta,  non solo
    pensò a Nena Daconte,  ma si rigirava  nel  letto  senza  riuscire  ad
    addormentarsi,  rammentando le sue notti di afflizione nei ritrovi per
    culattoni del mercato pubblico di Cartagena dei Caraibi.  Si ricordava
    del  sapore  del  pesce fritto e del riso al cocco nelle trattorie del
    molo dove attraccavano le golette di Aruba.  Si ricordò della sua casa
    dai muri ricoperti di trinitarie,  dove erano solo le sette della sera
    di ieri,  e vide suo padre con un  pigiama  di  seta  che  leggeva  il
    giornale nel fresco della terrazza.
    Si  ricordò  di  sua  madre,  che  non si sapeva mai dove si trovava a
    qualsiasi ora, sua madre appetitosa e ciarliera,  con un vestito della
    domenica e una rosa all'orecchio fin dall'imbrunire,  che soffocava di
    caldo per l'impiccio delle sue stoffe splendide.  Un pomeriggio quando
    lui  aveva sette anni,  era entrato d'improvviso nella camera di lei e
    l'aveva sorpresa nuda nel letto  con  uno  dei  suoi  amanti  casuali.
    Quell'incidente,  di cui non avevano mai parlato, instaurò fra loro un
    rapporto di complicità che era più utile dell'amore. Comunque, lui non
    fu consapevole di  questo,  né  di  tante  cose  terribili  della  sua
    solitudine  di  figlio  unico,  fino  a quella notte in cui si trovò a
    rigirarsi nel letto di una mansarda triste di  Parigi,  senza  nessuno
    cui  raccontare  la  sua  sventura,  e con una rabbia feroce contro se
    stesso perché non riusciva a trattenere la voglia di piangere.
    Fu  un'insonnia  proficua.   Il  venerdì  si  alzò   distrutto   dalla
    nottataccia, ma deciso a definire la propria vita. Si risolse infine a
    violare la serratura della valigia per cambiarsi d'abito, visto che le
    chiavi  erano  tutte  nella  borsetta di Nena Daconte,  con la maggior
    parte del denaro e l'agenda dei numeri  di  telefono  in  cui  avrebbe
    forse  trovato  qualche  conoscente di Parigi.  Nel solito bar si rese
    conto che aveva imparato a salutare in francese,  e a chiedere  panini
    al prosciutto e caffelatte.  Sapeva pure che non gli sarebbe mai stato
    possibile ordinare né burro né uova in alcun modo,  perché non avrebbe
    mai imparato a dirlo,  ma il burro lo servivano sempre col pane,  e le
    uova sode erano in vista  sul  banco  e  si  potevano  prendere  senza
    chiederle.  Inoltre,  dopo tre giorni, il personale di servizio si era
    familiarizzato con lui, e lo aiutava a spiegarsi.  Sicché il venerdì a
    pranzo,  mentre  cercava  di  chiarirsi le idee,  ordinò un filetto di
    vitello con patate fritte e una bottiglia di  vino.  Allora  si  sentì
    così  bene  che  chiese  un'altra bottiglia,  la bevve fino a metà,  e
    attraversò la strada fermamente risoluto a entrare  nell'ospedale  con
    la  forza.  Non  sapeva dove trovare Nena Daconte,  ma nella sua mente
    c'era netta l'immagine provvidenziale  del  medico  asiatico,  ed  era
    sicuro di trovarlo.  Non entrò dalla porta principale, bensì da quella
    del pronto soccorso, che gli era sembrata meno vigilata, ma non riuscì
    ad arrivare oltre il corridoio dove Nena Daconte l'aveva salutato  con
    la  mano.  Un  guardiano  col  camice  schizzato di sangue gli domandò
    qualcosa passando,  e  lui  non  gli  badò.  Il  guardiano  lo  seguì,
    ripetendo  sempre  la stessa domanda in francese,  e infine lo afferrò
    per un braccio con tale forza che lui dovette fermarsi.  Billy Sánchez
    cercò  di  liberarsene  con  un  espediente da metallaro,  e allora il
    guardiano lo insultò in francese,  gli  torse  il  braccio  dietro  la
    schiena  con  un'abile  mossa,  e  continuando  a dargli del figlio di
    puttana lo portò quasi di peso fino alla porta, rabbioso di dolore,  e
    lo buttò come un sacco di patate in mezzo alla strada.
    Quella sera, dolorante per la batosta, Billy Sánchez cominciò a essere
    adulto.  Decise,  come avrebbe fatto Nena Daconte, di ricorrere al suo
    ambasciatore.   Il  portiere  dell'albergo,   che  malgrado  l'aspetto
    scontroso  era  molto  servizievole,  oltre  che molto paziente con le
    lingue,  trovò il numero e  l'indirizzo  dell'ambasciata  sulla  guida
    telefonica,  e glieli annotò su un biglietto.  Rispose una donna molto
    gentile,  nella cui voce piana e senza spicco Billy Sánchez  riconobbe
    subito  la  dizione  delle  Ande.  Cominciò presentandosi col suo nome
    completo,  sicuro di impressionare la donna con i due cognomi,  ma  la
    voce non si turbò al telefono.  La sentì spiegare la lezione a memoria
    che il signor ambasciatore al momento non si trovava nel suo  ufficio,
    ma  che  lo  aspettavano  per  il giorno dopo,  e comunque non avrebbe
    potuto  riceverlo  senza  previo  appuntamento  e  solo  per  un  caso
    speciale. Billy Sánchez allora capì che neppure per quella via sarebbe
    arrivato a Nena Daconte,  e ringraziò per l'informazione con la stessa
    cortesia con cui gliel'avevano data.  Poi prese  un  taxi  e  si  recò
    all'ambasciata.
    Era  al  numero 22 dell'Avenue des Champs-Elysées,  in uno dei settori
    più tranquilli di Parigi,  ma l'unica cosa che  colpì  Billy  Sánchez,
    come lui stesso mi raccontò a Cartagena de Indias molti anni dopo,  fu
    che il sole era chiaro come nei Caraibi per la  prima  volta  dal  suo
    arrivo,  e  che  la  torre  Eiffel svettava sopra la città in un cielo
    radioso.  Il funzionario che lo ricevette al  posto  dell'ambasciatore
    sembrava  appena ristabilito da una malattia mortale,  non solo per il
    vestito di panno nero,  il colletto opprimente e la cravatta a  lutto,
    ma  anche per la cautela dei gesti e la mansuetudine della voce.  Capì
    l'ansia di Billy Sánchez, ma gli rammentò,  senza perdere la dolcezza,
    che  si  trovavano  in un paese civile le cui norme severe si basavano
    sui criteri più antichi e  più  saggi,  contrariamente  alle  Americhe
    barbare,  dove  bastava  una  mancia  al  portiere  per  entrare negli
    ospedali. «No, mio caro giovanotto» gli disse.  Non c'era altra scelta
    che  sottomettersi  al  prevalere  della ragione,  e aspettare fino al
    martedì.
    «In fin dei conti,  mancano ormai solo quattro giorni» concluse.  «Nel
    frattempo, vada al Louvre. Ne vale la pena.»
    Uscendo,  Billy  Sánchez si ritrovò senza sapere cosa fare in Place de
    la Concorde.  Vide la torre Eiffel sopra i tetti,  e gli  sembrò  così
    vicina  che  tentò  di raggiungerla camminando sui lungofiume.  Ma ben
    presto si rese conto che era più lontana di  quanto  sembrava,  e  che
    inoltre cambiava di posto a mano a mano che la cercava. Sicché si mise
    a  pensare  a  Nena Daconte seduto su una panchina in riva alla Senna.
    Vide passare le chiatte sotto i ponti, e non gli sembrarono barche, ma
    case erranti dai tetti rossi e dalle finestre con vasi  di  fiori  sul
    davanzale, e fili di ferro con biancheria stesa ad asciugare in mezzo.
    Contemplo  a  lungo un pescatore immobile,  con la canna immobile e il
    filo immobile sulla corrente, e si stancò di aspettare che qualcosa si
    muovesse, finché non cominciò a far buio, e decise di prendere un taxi
    per tornare all'albergo.  Solo allora si rese conto che ne ignorava il
    nome  e  l'indirizzo,  e  che  non aveva la minima idea del settore di
    Parigi in cui si trovava l'ospedale.
    In preda al panico, entrò nel primo bar che trovò,  ordinò un cognac e
    cercò  di  far  ordine  nei  suoi  pensieri.  Mentre pensava,  si vide
    ripetuto  più  volte  e  secondo  prospettive  diverse  negli  specchi
    numerosi  alle  pareti,  e  si trovò spaventato e solitario,  e per la
    prima volta dalla sua nascita pensò alla realtà  della  morte.  Ma  al
    secondo  bicchiere  si sentì meglio,  ed ebbe l'idea provvidenziale di
    tornare all'ambasciata.  Cercò il biglietto nella tasca per  ricordare
    il  nome  della  via,  e scoprì che sul retro erano stampati il nome e
    l'indirizzo  dell'albergo.   Rimase   così   male   impressionato   da
    quell'esperienza,  che  durante  il  finesettimana  non uscì più dalla
    stanza se non per mangiare e per spostare la macchina sul  marciapiede
    corrispondente. Per tre giorni cadde senza tregua la stessa pioviggine
    sporca del mattino in cui erano arrivati. Billy Sánchez, che non aveva
    mai letto un libro intero, avrebbe voluto averne uno per non annoiarsi
    disteso  sul letto,  ma gli unici che trovò nelle valigie della moglie
    erano in lingue diverse dallo spagnolo.  Sicché continuò ad  aspettare
    il  martedì,  contemplando i pavoni che si ripetevano sulla carta alle
    pareti e senza smettere di pensare un solo istante a Nena Daconte.  Il
    lunedì  fece  un  po' di ordine nella camera,  pensando a quel che lei
    avrebbe detto se l'avesse trovata in quelle condizioni,  e solo allora
    scoprì che la pelliccia di visone era macchiata di sangue secco. Passò
    il   pomeriggio  a  lavarla  col  sapone  profumato  che  trovò  nella
    valigetta,   finché  non  ridivenne  come  quando  l'avevano   portata
    sull'aereo a Madrid.
    Il martedì si presentò torbido e gelido,  ma senza pioviggine, e Billy
    Sánchez si alzò già alle sei,  e attese davanti all'ospedale insieme a
    una  folla di parenti di malati carichi di pacchi di regali e mazzi di
    fiori. Entrò col gregge,  reggendo sul braccio la pelliccia di visone,
    senza  domandare  nulla  e  senza alcuna idea di dove potesse trovarsi
    Nena Daconte, ma sorretto dalla certezza che avrebbe trovato il medico
    asiatico.  Passò per un cortile interno  molto  grande,  con  fiori  e
    uccelli  silvestri,  ai  cui  lati c'erano i padiglioni dei malati: le
    donne,  a destra,  e gli uomini,  a sinistra.  Seguendo i  visitatori,
    entrò nel padiglione delle donne. Vide una lunga fila di malate sedute
    sui letti con la camicia di tela dell'ospedale,  illuminate dalle luci
    grandi delle finestre,  e pensò  addirittura  che  il  tutto  era  più
    allegro   di   quel   che  si  poteva  immaginare  da  fuori.   Arrivò
    all'estremità del corridoio,  e poi lo percorse  di  nuovo  nel  senso
    contrario,  fino  a  convincersi  che  nessuna  delle  malate era Nena
    Daconte.  Poi ripercorse la veranda esterna guardando  dalla  finestra
    nei padiglioni maschili,  finché non credette di riconoscere il medico
    che cercava.
    Era lui, infatti. In compagnia di altri medici e di diverse infermiere
    esaminava un malato.  Billy Sánchez entrò nel padiglione,  scostò  una
    delle  infermiere  del  gruppo e si piantò davanti al medico asiatico,
    che era chino sul malato.  Lo chiamò.  Il medico  sollevò  lo  sguardo
    desolato, ci pensò un momento e allora lo riconobbe.
    «Ma dove diavolo si era cacciato?» disse.
    Billy Sánchez rimase perplesso.
    «All'albergo» disse. «Qui, all'angolo.»
    Allora lo seppe.  Nena Daconte era morta dissanguata alle 7.10 di sera
    di giovedì 9 gennaio,  dopo  settanta  ore  di  sforzi  inutili  degli
    specialisti  più  qualificati di Francia.  Fino all'ultimo istante era
    rimasta lucida e serena,  e aveva dato istruzioni affinché  cercassero
    suo marito all'Hotel Plaza Athenée, dove avevano una camera prenotata,
    e  aveva  fornito i dati affinché si mettessero in contatto con i suoi
    genitori.  L'ambasciata era stata  informata  il  venerdì  tramite  un
    telegramma  urgente  della  sua cancelleria,  quando già i genitori di
    Nena Daconte volavano verso Parigi.  L'ambasciatore in persona si  era
    incaricato  dei  tramiti  per  l'imbalsamazione  e i funerali,  ed era
    rimasto in contatto  con  la  Prefettura  di  Polizia  di  Parigi  per
    localizzare  Billy  Sánchez.  Una  circolare  urgente  con i suoi dati
    personali era stata trasmessa dalla sera  del  venerdì  al  pomeriggio
    della domenica attraverso la radio e la televisione,  e durante quelle
    quaranta ore era stato  l'uomo  più  cercato  della  Francia.  La  sua
    fotografia,  trovata  nella  borsetta  di  Nena  Daconte,  era esposta
    ovunque.  Tre Bentley convertibili dello stesso  modello  erano  state
    localizzate, ma nessuna era la sua.
    I  genitori di Nena Daconte erano arrivati il sabato a mezzogiorno,  e
    avevano vegliato il cadavere nella cappella  dell'ospedale  in  attesa
    fino all'ultimo momento di trovare Billy Sánchez.  Anche i genitori di
    lui erano stati informati, e si erano tenuti pronti a volare a Parigi,
    ma infine avevano desistito per via di una confusione di telegrammi. I
    funerali si erano svolti la domenica alle due del pomeriggio,  a  soli
    duecento  metri  dalla  sordida  camera d'albergo in cui Billy Sánchez
    agonizzava di solitudine per l'amore di Nena Daconte.  Il  funzionario
    che  si  era occupato di lui all'ambasciata mi disse anni dopo che lui
    stesso aveva ricevuto il telegramma della sua cancelleria un'ora  dopo
    che  Billy Sánchez era uscito dall'ufficio,  e che l'aveva cercato nei
    bar silenziosi del Faubourg Saint Honoré.  Mi  confesso  che  non  gli
    aveva badato molto quando l'aveva ricevuto,  perché non si sarebbe mai
    immaginato che quel colombiano disorientato dalla novità di Parigi,  e
    con  un  giaccone  di  pelle  così  mal  portato,  avesse a suo favore
    un'origine tanto illustre.  La sera della stessa domenica,  mentre lui
    tratteneva la voglia di piangere di rabbia, i genitori di Nena Daconte
    avevano  interrotto  le  ricerche  e  avevano  portato  via  il  corpo
    imbalsamato dentro la  bara  metallica,  e  quanti  erano  riusciti  a
    vederla  continuarono  a  ripetere  per molti anni che non avevano mai
    visto una donna così bella,  né viva né  morta.  Sicché  quando  Billy
    Sánchez  entrò  infine  nell'ospedale,  il martedì mattina,  era ormai
    terminato il funerale nel triste cimitero di La Manga,  a pochi  metri
    dalla  casa  in  cui  loro  avevano  decifrato  le  prime chiavi della
    felicità.  Il medico asiatico che mise al corrente Billy Sánchez della
    tragedia   volle  dargli  qualche  pillola  tranquillante  nella  sala
    dell'ospedale,  ma lui rifiutò.  Se ne andò via senza salutare,  senza
    nulla  per  cui  ringraziare,  pensando  che l'unica cosa di cui aveva
    urgente bisogno era trovare qualcuno cui rompere la faccia a colpi  di
    catena per rifarsi della sua disgrazia. Quando uscì dall'ospedale, non
    si  accorse  neppure che stava cadendo dal cielo una neve senza tracce
    di sangue,  i cui fiocchi soffici e nitidi sembravano piccole piume di
    colomba, e che per le vie di Parigi c'era aria di festa, perché era la
    prima grande nevicata da dieci anni a quella parte.

    1976.